Perfino lo stesso Maccio Capatonda aveva sbertucciato "Avetrana - Qui non è Hollywood", la nuova serie Disney Plus, sui social, facendo notare come la locandina gli ricordasse un suo film, "Omicidio all'italiana". In effetti, a partire dal titolo sembrava tutto davvero grottesco, caricaturale. Come il fatto che Disney, per quanto Plus, si fosse messa a produrre una storia di cronaca nera. Altro punto a sfavore, lo sciacallaggio perenne nei confronti di casi di cronaca nera recente, come nel caso di Yara su Netflix, ma pure ogni servizio de Le Iene sulla strage di Erba et similia. C'era proprio bisogno, insomma, di una serie tv sui fattacci di Avetrana? Con grande sorpresa, avevamo criticato il progetto molto duramente fin dal giorno dell'annuncio, la risposta è sì. Per come è stata sviluppata, recitata e diretta, assolutamente sì. Nessuna intervista, nessun documentario, niente di niente aveva finora portato lo spettatore di fronte alla cruda realtà: oltre al circo mediatico, al folklore, alla "buffa" parlata di "zio Michele", in questa storia è morta una ragazzina di 15 anni, Sarah Scazzi. Vittima dimenticata e sacrificata, una seconda volta, sull'altare del clamore, dell'audience, dell'italianità più scema e morbosa. Paradossalmente ci è voluta una fiction, in uscita il 25 ottobre su Disney Plus, per tirarci il pugno allo stomaco che meritavamo da 14 anni. E questo pugno in pancia è lì per ricordare quanto tutti dovremmo sentirci colpevoli nei confronti di Sarah Scazzi. Perché no, Avetrana non è (mai stata) Hollywood. E chiunque, con un filo di sale in zucca, di amor proprio ed empatia, avrebbe evitato di guardare quella vicenda come fosse una soap a tinte fosche, ma pure comiche, a tratti. Una barzelletta da raccontare al bar. Davanti a questa serie, finalmente, a nessuno verrà in mente di ridere.
Lo scriviamo senza tema di smentita: chi ne scrive male, chi si indigna per "Avetrana - Qui non è Hollywood" lo fa perché non si è preso la briga di guardarla davvero. Abbiamo visto le quattro puntate in anteprima ed è stato molto difficile. È stato difficile perché sono respingenti a partire dalla incredibile somiglianza fisica degli attori ai "protagonisti" della vicenda. Ognuno dei quattro episodi viene narrato dal punto di vista di uno di loro: Sarah, Sabrina, Michele e Cosima. Vedere Sarah Scazzi (Federica Pala) vivere e saltellare felice per Avetrana è già un punto di partenza tosto per tutti noi che siamo così abituati a riconoscerla soltanto in foto. Per una volta, è lei la vera protagonista di questa storia, come è giusto che sia. Quindici anni, in rotta con la madre come tutti gli adolescenti, voleva perfino farsi adottare dalla famiglia Misseri (non è un'invenzione di sceneggiatura) perché si trovava tanto bene con loro: Sabrina la portava al bar e al mare con gli amici, gli zii le facevano festeggiare il compleanno a suon di torte. Cosa che a casa sua non poteva fare perché i genitori erano testimoni di Geova e, in osservanza di questa religione, il genetliaco non si celebrava punto e fine. Sarah Scazzi era entusiasta della vita e anche, se non soprattutto, di quei parenti che avrebbero finito per ammazzarla.
L'episodio che racconta la vicenda attraverso lo sguardo si Sabrina Misseri (Giorgia Perulli) è forse il migliore di tutti. La cugina, condannata all'ergastolo, qui non viene raccontata come una ragazzotta sovrappeso invidiosa ma tutto sommato quasi una macchietta comica: i trecento messaggi al giorno che mandava a Ivano, "l'Alain Delon di Avetrana", di cui era innamorata non corrisposta, la lucidità con cui comincia e porta avanti la propria farsa già a cinque minuti dall'omicidio, fino allo scoppio di folle ira di fronte a un supermercato del paesello in cui emerge chiaramente la malattia, l'ossessione, tutto ciò che l'ha portata ad agire, secondo tre gradi di giudizio, togliendo la vita all'invidiata cuginetta Sarah. C'è sempre stata una sorta di "benevolenza" nei confronti di Sabrina Misseri. Questa serie ci ricorda cosa sia stata in grado di fare, con quanta ferocia e per quali futilissimi motivi. Qui Sabrina Misseri non fa (sor)ridere per la cotta che s'era presa nei confronti di un ragazzo come tanti, per i suoi chili in più, per la parlata zoppicante. Qui Sabrina Misseri fa paura. Questa serie sottolinea come ci siano diverse ragioni, tutte validissime, per cui oggi si ritrova condannata all'ergastolo. Così come sua madre, Cosima Serrano.
Cosima Serrano (una irriconoscibile Vanessa Scalera) è la matriarca dittatrice della situazione. "Tua figlia è morta, la mia è ancora viva", dice alla sorella, la mamma di Sarah, in una scena della serie. Come a giustificare, implicitamente, le motivazioni del suo agire. Sta coprendo Sabrina perché tanto, per l'altra, è troppo tardi, non c'è più niente che si possa fare. Il suo agire, dicevamo, ricorda molto da vicino le modalità di un padrino malavitoso. Poche parole, moltissime allusioni, ciò che lei stabilisce, anche solo con lo sguardo, deve essere fatto. Qui Cosima Serrano non è una madre di famiglia come tante altre, qui, di nuovo, Cosima Serrano fa paura. Fa paura mentre si adopera per far incarcerare il marito, Michele Misseri, a lei sottomesso fin da giorno delle nozze e il primo del trio a crollare di fronte alle domande degli inquirenti. Fa paura quando, ben consapevole di aver preso parte all'omicidio della nipote che l'avrebbe voluta come mamma, è lei ad accompagnare la sorella nel triste giorno in cui la donna si ritrova a dover riconoscere il cadavere della figlia, ritrovato in un pozzo. "Quella cosa non è Sarah", le dirà la sorella subito dopo. Perché la ragazzina, lasciata per una eterna quarantina di giorni nell'acqua, non aveva più la faccia. Nel frattempo, immaginiamo, a qualcuno sarà venuta la brillante idea di organizzare i famigerati pullmini per fare di Avetrana una meta "turistica", con gente disposta a pagare per farsi un selfie di fronte alla casa degli orrori, di fronte a quel pozzo.
Difficilmente, dopo aver guardato questa serie, sarà ancora possibile associare la morte violenta di Sarah Scazzi a tutto il circo mediatico che ne è conseguito e che abbiamo seguito buttando là i nostri due centesimi di indignazione. Indignazione di rado rivolta ai responsabili di questo omicidio, ma al modo morboso in cui la stampa, tra giornali e tv, stava trattando il caso. E che non mancavamo mai di seguire, avvinti. Indignazione più che legittima e meritata, ma tra una cosa e l'altra, abbiamo perso di vista il cuore non più pulsante della vicenda: Sarah Scazzi uccisa da zii e cugina a quindici anni. Zii e cugina che hanno mentito, finché hanno potuto, col resto dei famigliari in primis, oltre che all'Italia intera, portando avanti una recita grottesca, surreale, atroce, quasi quanto l'assassinio in sé. Mentre tutti scambiavamo davvero Avetrana per Hollywood, accecati dai flash di fotografi e telecamere, la realtà si era trasformata in una fiction condita dalle faccette contrite di Barbara d'Urso et similia. Paradossalmente, oggi è la fiction, questa fiction magistralmente diretta da Pippo Mezzapesa, che rimette le cose in ordine tirandoci lo schiaffo che ci ha mancati nel 2010 quando avremmo dovuto scegliere di non guardare una storia tanto atroce, di non cibarcene come fosse una telenovela. Perché i contenuti sono orrendi, brutali e la serie li restituisce per quello che sono, diventando spesso respingente, come è giusto che sia. La storia dell'omicidio di Sarah Scazzi è sempre stata respingente. Siamo noi, nessuno escluso, a non averlo capito, fiondandoci, per mezzo della stampa, come sciacalli sulla carcassa. Se la tv e i giornali ci hanno presentato per anni Sabrina, "zio" Michele e Cosima come macchiette, dopo oltre un decennio li vediamo finalmente per quello che sono: assassini. C'era proprio bisogno di una serie tv sul caso di Avetrana, dunque? Con grandissima sorpresa, la risposta è sì. E consigliamo davvero di vederla. Fosse anche solo per rendersi conto di quanto siamo stati stronzi.