Con le tecnologie che abbiamo sviluppato, i metodi di indagine sempre più raffinati e la possibilità, via social, di filmare un fatto criminoso “in diretta” è davvero possibile sfuggire alla legge? No, “a meno che tu non abbia un buon avvocato”. È Stefano Nazzi a dirlo, uno dei giornalisti che più di tutti (forse insieme a Carlo Lucarelli) hanno reso popolare il true crime. E questo genere si è ormai allargato ben oltre i podcast, arrivando su Netflix (si veda il documentario Il caso Yara: oltre ogni ragionevole dubbio) e dando vita a diverse serie tv (in arrivo quella sul mostro di Firenze). Quando l’attenzione mediatica diventa così insistente, è ovvio che ai fatti si sovrappongono varie interpretazioni non sempre fondate: “Ci sono casi che si sono caricati di ipotesi, luoghi comuni, fake news”, e allora il compito del giornalista è quello “di togliere l’inutile polvere che si è depositata intorno alle storie, trasformandole”. È improprio, comunque, prosegue Nazzi, dire che sono solo i giornalisti a creare quella polvere che muove l’interesse del grande pubblico: “Il problema è che la cronaca stessa è diventata terreno di battaglia politica. Le indagini e i processi sono complessi, non se ne può isolare una parte ed esprimere un giudizio. E soprattutto non è necessario avere un’opinione su tutto”. L’intervistatrice del Fatto Quotidiano, Silvia D’Onghia, chiede poi a Nazzi di uno di quei casi che sono stati quasi riaperti proprio grazie all’impatto mediatico di una trasmissione: si tratta della strage di Erba con Rosa Bazzi e Olindo Romano e l’inchiesta delle Iene. “Le Iene hanno fatto una cosa legittima: sono partite da una tesi e l’hanno sostenuta”, dice il giornalista, “ma nel processo ci sono tanti altri elementi che andrebbero presi in considerazione. Mi chiedo perché la stessa attenzione non venga riservata ad altri casi”.
Che dire, infatti, del processo relativo all’omicidio di Meredith Kercher a Perugia? “Le prove non ci sono – dicono i giudici –, a eccezione di quelle su Rudy Guede, e dunque non si può accertare quello che è successo. La Cassazione, però, parla di inusitata attenzione mediatica che ha portato a un’accelerazione delle indagini. Questo ha contribuito alla convinzione che sia stato fatto un gran casino”. Di nuovo: quanto influisce l’opinionismo diffuso sui casi di cronaca nera? Un altro esempio di questa “contaminazione” è il dibattito che si è creato intorno alle questioni genetiche del caso Yara, che per Nazzi resta “la più grossa indagine scientifica che sia stata fatta”, e l’aumento dei sostenitori della presunta innocenza di Massimo Bossetti: “La verità è che adesso qualsiasi storia viene rivoltata”. Ma non è stato solo l’avanzamento delle tecniche di analisi del Dna a cambiare le sorti dei processi. Anche la presenza di telecamere, la possibilità di fare affidamento su occhi elettronici, è un elemento decisivo. E ciò avrebbe potuto avvicinarci alla verità anche in grandi casi del passato, come la scomparsa di Emanuela Orlandi. Non a caso, dice ancora Nazzi, gli omicidi sono diminuiti: la forza tecnologica è un “deterrente”. Affidarsi completamente agli esami genetici, però, sarebbe un errore. Ed è di nuovo l’omicidio di Yara a dimostrarlo: “Quando fu scoperto il Dna sugli slip di Yara, gli inquirenti arrivarono all’individuazione di una persona, il cui Dna però non corrispondeva precisamente. A quel punto, ebbero l’intuizione del ‘figlio illegittimo’. Le indagini tradizionali continuano a essere fondamentali”. Se il delitto perfetto non esiste, le indagini posso esserlo, conclude Nazzi, che evidenzia anche l’importanza dei bravi avvocati: “Se hai un legale scarso, non vai da nessuna parte”.