Nel terzo episodio di Beckham, il documentario Netflix sulla vita e la carriera del fuoriclasse inglese, il giornalista John Carlin dice che una volta un giornale commissionò uno studio: vennero intervistate migliaia di persone provenienti da tutte le parti del mondo. Si voleva valutare la popolarità di David Beckham. Il risultato? Tutti gli intervistati conoscevano il calciatore. Tranne uno: un pastore del Chad. Quello di Beckham fu un fenomeno sociale prima ancora che calcistico. Certo, i suoi risultati con il Manchester United, le vittorie in Premier League e quella Champions League conquistata dopo 15 anni di attesa hanno contribuito a rendere David una stella assoluta. Ma è innegabile il fatto che le vicende extra calcistiche abbiamo elevato a dismisura l’impatto della sua immagine. Florentino Perez, il presidente del Real Madrid, anche lui tra le voci del documentario, non si nasconde rispetto alle ragioni dell’ingaggio dell’ala inglese: “In un anno triplicammo il fatturato”. Chi comprava Beckham non comprava solo un calciatore, ma assorbiva un’azienda, un brand conosciuto in tutto il mondo. Era come stringere accordi con uno sponsor che avrebbe garantito un flusso costante di denaro nelle casse societarie. Fu così in Spagna, ma anche in Italia e in Francia, dove Beckham giocò per il Milan e il Paris Saint Germain. Anche se il cambiamento epocale fu quello del 2007, quando si trasferì ai Los Angeles Galaxy: fu il primo giocatore dell’era moderna a trasferirsi oltreoceano per giocare in Mls. In un campionato che faceva pena, come ammettono i suoi stessi compagni losangelini. Infatti, dopo una sola stagione e mezzo, si traferì al Milan dell’allora presidente Silvio Berlusconi. Guardando oltre le rivedibili caratteristiche tecniche del campionato americano, ciò che conta è che quell’operazione riuscì a incanalare gli sguardi degli americani sul calcio. Un trend che, visti gli ultimi anni, ha avuto un discreto successo. Ora Beckham è proprietario dell’Inter Miami, dove la scorsa estate è approdato il migliore di tutti, Lionel Messi. Le cose, dunque, sembrano andare bene al bel David. Ma non è sempre stato così. A parlare dei momenti negativi è spesso Victoria Adams, “Posh Spice” e sua moglie dal 1999. Costretta a seguire il marito in giro per l’Europa e per il mondo, l’ex Spice Girl dovette fare di tutto per mantenere l’equilibrio tra la loro immagine pubblica e quella privata. Senza mezzi termini, al tempo la stampa inglese li definiva la coppia del secolo. Nel periodo di Madrid, la famiglia Beckham era letteralmente guardata a vista. I paparazzi li seguivano costantemente, senza dar loro respiro.
C’è, però, un significato che rimane sottotraccia nel documentario: la costruzione del personaggio di David Beckham ha sancito la definitiva scomparsa del “calcio rock”. Dopo di lui, il football sarà condannato a essere uno sport irrimediabilmente pop. Basta vedere quello che successe nel 2003, quando su tutte le testate giornalistiche apparse la notizia del presunto tradimento di Beckham. Le voci si seguirono per diverse settimane, mettendo a dura prova Victoria, già in difficoltà a causa del cambiamento portato dal trasferimento al Real. La coppia fedele sembrava incrinarsi, lasciando intravedere l’ombra che stava dietro la loro apparenza luminosa. Come se i fan non potessero accettare un simile affronto, quasi fossero loro a essere stati traditi. Beckham smentì in ogni modo, riaffermando la sua figura di padre e professionista. Mai una frase fuori posto. Vediamo un altro esempio: al mondiale del 1998, durante la partita tra Inghilterra e Argentina, Beckham venne provocato da Diego Simeone, l’inglese non mantenne il sangue freddo e colpì (leggermente) l’avversario. Rosso diretto per fallo di reazione. L’Inghilterra venne sconfitta ed eliminata dalla competizione. Per i primi mesi del campionato successivo, passò le trasferte a subire insulti e minacce di ogni tipo: la colpa era il “tradimento” nei confronti del proprio paese. La responsabilità del fallimento nazionale era sua. Beckham, però, non reagì. Anzi, con un’educazione invidiabile ricominciò a lavorare a testa bassa, fino alla partita contro l’Inter, dove giocava proprio Simeone. Neanche in quel caso ebbe un sussulto. Beckham era così, troppo bello per scendere sul piano della rissa. L’unica volta che aveva oltrepassato il limite era stato espulso. L’unica provocazione che gli rimaneva, quindi, era quella estetica: tagli di capelli strani, vestiti fuori dal comune, occhiali rivedibili. Non potendo ribattere in nessun modo al mondo che lo stava sfruttando, e che con la sua immagine guadagnava miliardi, reagì con la moda, il glamour e gli shooting. Provocazioni, però, che rimangono in superficie. Dopo David, infatti, nel calcio ci saranno solo soldi e immagine: l’accettazione di meccanismi economici e comunicativi che non possono essere scalfiti.
“Simbolo di malessere e manifestazione di protesta e ribellione”. Questa è la definizione sintetica di rock. È quasi paradossale che sia stato un giocatore cresciuto nel Manchester United a dare inizio all’epoca del calcio pop, che di ribellione o protesta non ha proprio niente. La squadra di George Best e Eric Cantona; il primo visse e morì come una rockstar; il secondo, invece, godeva nello stare fuori posto in ogni situazione. David no, lui era sempre al posto giusto, vestito bene, con la faccia pulita. Solo ogni tanto si concedeva qualche rimasuglio di contraddizione, specie nel periodo americano, dove litigò con compagni e pubblico per le accuse di scarso impegno. Momenti isolati all’interno di una vita fatta per trasformarsi in un marchio. Il documentario Beckham ci mostra non solo la parabola di un uomo felice, padre di tre bellissimi figli nati dalla relazione con una delle donne più famose del mondo. Il documentario ci sbatte in faccia la fine del calcio rock’n’roll dei Best, dei Cantona e dei Diego Armando Maradona. L’anno zero di un’epoca in cui i calciatori sono ridotti a pupazzi con le tasche che traboccano.