Quando il 28 settembre uscirà su Netflix Blonde, il film di Andrew Dominik, in molti si sentiranno spaesati dal bombardamento di immagini e informazioni, quasi si fosse costretti ad avere una conoscenza più che superficiale su Marilyn Monroe, ma non è così. Tratto dal romanzo di Joyce Carol Oates, Blonde è un découpage sulle vite di Norma e Marilyn, che viaggia tra vero e faceto, tra i colori e il bianco e nero: cosa è reale? E cosa viene filtrato dalla mente di Marilyn, in modo totalmente dissociato, per difendersi dalla realtà?
Lo stile di Dominik (L’assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford) ha qualcosa di bulimico, ma al contempo ossessivo compulsivo, maniacale nella riproduzione di alcune scene della vecchia Hollywood (solo per questo meriterebbe ogni premio tecnico) e, soprattutto, violentissimo. Blonde è violento, è violento nella stessa misura in cui potrebbe esserlo un romanzo di Bret Easton Ellis (soprattutto Glamorama) o, peggio ancora, l’idea di guardare una persona che amate morire senza poter fare nulla. Sono 160 minuti di film, quasi tre ore di cura Ludovico con buona pace di Alex DeLarge. Si parte dall’infanzia di Norma Jeane (meravigliosa Ana de Armas) con un approfondimento, che non si vede mai altrove, sul rapporto con la madre schizofrenica Gladys (Julianne Nicholson); un padre cercato e mai trovato (Norma pensò per anni che suo padre fosse Clark Gable!); una infanzia fatta di scene quotidiane di disfunzionalità estrema che gettarono le basi sulla successiva sindrome di abbandono della donna, sull’abuso di alcol e barbiturici, e le scelte sempre sbagliate in fatto di uomini e amicizie.
Se la sua infanzia pare un conglomerato di degrado, benché ci vengano evitati gli abusi che subì nell’orfanotrofio da un certo signor Kimmel, la vita nella Hollywood precedente al crollo del divismo - raccontato tanto bene dai libri di Kenneth Anger - è ancora più miserabile, solitaria e brutale di quell’America povera che sfocia nel white trash da cui proviene la donna. Marilyn era il mito, Norma Jean il pezzo di carne per film poco degni del suo talento e della sua cultura. L’evoluzione, ma umanamente il “work in regress”, che la porta a diventare la Monroe, non è tanto dissimile alla spirale di degrado e violenza subito da Linda Lovelace pochi anni dopo: in fondo che differenza c’è mai stata tra Hollywood e l’industria del porno?
Ci viene risparmiato anche il ricovero - inizialmente volontario - alla clinica Payne Whitney un anno prima di morire, ma ci viene inflitto molto altro tra cui gli aborti imposti e quelli spontanei di Norma combattuta tra il diventare madre e la paura di trasmettere i geni malati di sua madre, di sua nonna, in una ereditarietà senza scampo.
Quello che vediamo in Blonde sono fragments, frammenti come il libro stupendo dove Stanley Buchthal e Bernard Comment riuniscono il vero testamento, la reale autobiografia della diva attraverso pagine, note, pensieri sparsi ovunque, anche sui tovaglioli dei ristoranti.
Di Arthur Miller (Adrien Brody) vediamo poco (a nessuno dei suoi uomini viene dato il vero nome), di Joe DiMaggio (Bobby Cannavale) ancora meno, e di John Kennedy (Caspar Phillipson) solo una scena tragicomica quasi a voler suggerire che, con l’orgasmo in canna, tutti gli uomini sono dei coglioni, anche il presidente amatissimo del mondo libero (?).
“È sempre possibile cambiare ma non cambiamo” confessò Marilyn a uno dei suoi medici, il dottor Greenson. Vale per lei quanto gli sciacalli e i vampiri emotivi che la circondarono nell’arco della sua brevissima vita.
Amata da Truman Capote, che modellò su di lei Holly Golightly, desiderata da donne e uomini, dai suoi stessi terapisti, la parabola tragica di Norma Jeane ci ricorda che la gente vuole solo il nostro sangue, non il nostro dolore, soprattutto se si parla di una stella hollywoodiana condannata all’eterno tormento.
“Assassini, bugiardi” come urlava in una scena de Gli Spostati scritta da Arthur Miller per lei o, sarebbe meglio dire, grazie a lei, alla sua tragica, derisa e incomprensibilmente invidiata esistenza.
La relazione à la The Dreamers con Chaplin Jr (Xavier Samuels) ed Eddy (Evan Williams), due figli d’arte uniti in amicizia, e non solo, alla figlia di un’America puritana, povera e violenta, aggiunge a Blonde quel tocco sadico di una felicità impossibile da raggiungere, di un sistema di caste inscalfibile anche quando diventi famoso: Marilyn è pur sempre figlia di padre ignoto e di una schizofrenica, condannata a essere libera, per dirla con Pier Paolo Pasolini, di una “libertà che mi ha massacrato”.
Lacerata nella tremenda dicotomia di chi, tra i suoi uomini, vuole Norma e chi preferisce Marilyn, l’attrice perde sé stessa in una pillola di troppo, magari ingoiata in una serata un po’ più triste delle altre. Norma Jeane, lo sappiamo, muore, ma Marilyn Monroe vive e con lei la leggenda commovente di chi non ha mai avuto davvero una possibilità nella vita. Ci sono persone che ce l’hanno scritta sulla fronte la tragedia, ed è “scritta con le lacrime”.
Perché Marilyn era l’emblema dell’America degli steccati bianchi, della violenza e della tenerezza, del prezzo del sogno marcio che ha spinto, comunque, tanta gente verso le “Meriche”, degli abusi dietro una porta chiusa, della solitudine in un telefono che squilla e non riceve risposta, delle troppe pillole ingoiate, delle case famiglia, dei ricoveri, del tramonto del divismo, della icona la cui storia, come quella di Laura Palmer, è ancora la storia della bambina che abitava in fondo alla strada.