Abbiamo iniziato l’anno con Will Smith e il suo schiaffo a Chris Rock e finiamo l’anno - lo sappiamo tutti che l’anno finisce, in realtà, a settembre - con Gianni Amelio che si fa venire gli scompensi, in conferenza stampa a Venezia 79, contro il giornalista dell’Espresso Fabio Ferzetti. Il duello, stupidissimo, al primo sangue non è partito per Il signore delle formiche (in concorso) che non sembra avere convinto molti - ma a questo ci arriveremo - ma per un titolo ritenuto offensivo dal regista in relazione a un articolo di due anni fa (!) su Hammamet. La cosa ha dell’incredibile ma non pare ci sia niente di nuovo sul fronte occidentale.
Credo non esista una categoria più pavida dei giornalisti e, dall’altra, una categoria più egoriferita degli artisti (registi e attori in testa). Se metti insieme questi elementi instabili hai il teorema del delirio.
Ora, dalla fine della conferenza in poi, grappoli di giornalisti si sfaldano e staccano le impronte digitali in accorati appelli per Ferzetti, tra social e articoli vari, ma in conferenza stampa, di fronte al livore di Amelio, c’era un silenzio che manco quello di Dio nella trilogia di Ingmar Bergman. E questa mancanza di solidarietà, che non deve per forza sfociare nella cieca connivenza, alimenta una situazione già grottesca e invivibile o, parafrasando Craxi: tutti noi abbiamo creato un clima infame.
Il comportamento di Gianni Amelio è, a voler essere gentili, inqualificabile perché è un sistema, quello dell'industria culturale (cinema, musica and so on) che si basa su una catena alimentare dove ogni livello è essenziale a un equilibrio da mantenere; è un sistema che richiede che il giornalista (e non parlo di chi commenta i film sui social) meriti lo stesso rispetto del regista, considerato che poi, in Italia, la maggior parte fa altri lavori di supporto al primo, e abbiamo tantissime “penne” eccellenti che non arrivano a fine mese.
Dall’altra – benché non approvi chi come Amelio, ma avrei tanti nomi da fare, mortifica chi lavora – molto spesso chi lavora non lo fa neanche bene se non con l’intento, grossolano e distruttivo, di ottenere visibilità sui social.
Voglio scindere il regista che ha portato in concorso Il signore delle formiche dal quasi ottuagenario che pare avere una personale death note coi nomi di chi gli fa girare le palle. Trovo altrettanto assurdo e inqualificabile fischiare o urlare “buuu” dopo la proiezione in Sala Grande de Il signore delle formiche, soprattutto in una kermesse sotto la media – e va detto – dove il film di Gianni Amelio la rialza un po’ questa media. Insomma, sono i soliti che poi urlano al capolavoro per Monica di Andrea Pallaoro. I soliti che difendono Abel Ferrara quando dicono - anche giustamente - con tutti i suoi difetti che Padre Pio ci fa conoscere una pagina della storia nostrana sconosciuta ai più. Ma perché Ferrara sì e Amelio no?
La storia di Aldo Braibanti (Luigi Lo Cascio) grandissimo mirmecologo, poeta, amico dei grandi – come lui – à la Carmelo Bene (che lo definiva un maestro), vittima dell’unico caso di persecuzione processuale con l’accusa di plagio. Un caso per cui non solo gli amici artisti ma anche i radicali, in primis Marco Pannella ed Emma Bonino, provarono a scuotere l’opinione pubblica. Il reato di omosessualità non esisteva all’epoca, come ricorda il giornalista Ennio (Elio Germano) che segue il caso: nel codice fascista, non ancora aggiornato, non esisteva una regolamentazione a riguardo, tra l’altro ne parlava anche Pier Paolo Pasolini, semplicemente perché non volevano ammettere l’esistenza dell’omosessualità. Aldo e il compagno Ettore (Leonardo Maltese) si conoscono sul finire degli anni '50 in un casolare adibito a comune artistica dove Aldo può lavorare, e mole di studenti, tra cui Ettore e suo fratello, gravitano attorno. Aldo ha diversi protetti, il nuovo è Ettore che, a differenza del fratello (la cui gelosia e ambiguità nei confronti dei due è uno dei punti migliori del film) sembra sviluppare una comprensione infinita col poeta. Dall’Emilia rurale i due decidono di scappare e vivere il loro amore a Roma, forse più tentacolare ma, in apparenza, meno bigotta. Passano gli anni e come insegna la famiglia di Lou Reed, Ettore viene prelevato dalla stanza dove abitava con Aldo per essere sottoposto, per anni, a qualcosa come 40 e più terapie elettroconvulsive. Braibanti finisce in carcere, il resto è storia, reo di avere plagiato psicologicamente un giovane (maggiorenne) nell’intraprendere una relazione tra invertiti.
Siamo ben lontani dalle vette della filmografia di Gianni Amelio, ma è una bella serie di tesi luterane contro l’Italia tutta, anche quella dei comunisti che, in fin dei conti, del destino di un partigiano vero come Braibanti se ne fregano, solo Ennio rimane a fianco di quello scrittore sventurato. L’ipocrisia di un'opinione pubblica che, come i colleghi del critico preso di mira del regista, se ne sbatte del destino atroce di un uomo perché non è abbastanza famoso (un film così oggi su Pasolini farebbe strappare a tutti le mutande in sala) a differenza dei suoi coevi intellettuali; un po’ come le femministe che ridurrebbero tutto a un problema tra maschi bianchi perciò di poca importanza.
Impossibile non pensare, durante la deposizione di Ettore, al processo a Oscar Wilde: a differenza del Bosie di Wilde, Ettore non tradisce Aldo e quell’amore che non osa dire il suo nome lo dice, con tutti i segni delle bruciature sulle tempie da elettroshock, lo dice ad alta voce in barba alla sua famiglia anaffettiva, come uno schiaffo contro una società che ha fatto di una coppia di innamorati la punizione esemplare, il peccato da non commettere in quell’epoca, il ’68, che reclamava a gran voce un mondo migliore.
Ma cosa è cambiato dopo il ’68?
Assolutamente niente.
Tornando al caso Amelio e ampliando il punto di vista, la critica in quanto tale è morta per svariate ragioni:
1. Il costante bisogno di safe space degli artisti o mestieranti (che mica è una offesa e vorrei chiarirlo una volta per tutte) per la totale incapacità di subire un affondo per quanto giusto e argomentato; vivendo in un ambiente viziato, questa categoria di persone non ha gli strumenti per affrontare le critiche e sarà condannato a essere trattato da tutti come un idiot savant con una falsa percezione di sé.
2. Ormai la critica si è ridotta a una rielaborazione pigra e leggermente più prolissa dei comunicati stampa perché, sapete, c’è sempre di mezzo qualcuno da non irritare: il management, l’amico di infanzia, la sorella della moglie, l’artista, l’ufficio stampa e la congiunzione astrale avversa, dove bisogna sacrificare sull’altare della mediocrità l’arte o quello che ne rimane.
3. Chi fa critica oggi non sa farla, ha dei riferimenti culturali estremamente limitati e, ormai, non si capisce più se è stata la critica a crollare trascinando con sé il pubblico o viceversa, un po’ come il dilemma dell’uovo e della gallina.
4. Per quanto i sintomi di questa malattia siano ovunque, in Italia il livello di contagi è altissimo, soprattutto se avete modo di rapportavi con colleghi che lavorano all’estero.