Se non avete letto The End of the Fuckin World (da cui hanno tratto la serie Netflix) compratelo subito. Se siete tentati di vedere Bones and All per motivi che esulano il vostro amore per Timothée Chalamet, state a casa. Questa ossessione di Luca Guadagnino per le storie adolescenziali da Melissa P. in poi mi ha sempre fatto storcere il naso. Non voglio dire altro che potrebbe essere passibile di denuncia, ma dopo il remake di Suspiria che, tolta la parte inutile sulla politica, è un buon lavoro, aspettavo con fiducia un suo ritorno a un genere, l’horror, che sembra appartenergli di più rispetto alle solite coming-of-age story. Bones and All è un vampire-cannibal love drama (a caso) dove Maren (Taylor Russell) viene abbandonata dal padre dopo un mini-episodio di cannibalismo ai danni di un’amica durante un pigiama party. Sembra l’inizio di Titane ma, fortunatamente, non prosegue come il film di Julia Ducournau. Due spicci lasciati sul tavolo, un walkman con una musicassetta confessione (sì, Guadagnino come i russi non è mai uscito dagli anni ’80) che manco nella serie Tredici, questa è l’eredità della ragazza che deve ascoltare, a puntate, il padre snocciolare verità agghiaccianti sulla madre costringendola a viaggiare per l’America. In realtà potrebbe essere benissimo anche la Puglia, perché non ci troviamo di fronte a un’America riconoscibile come quelle di My Own Private Idaho o a Strada a Doppia Corsia. Una storia di formazione dove Maren si chiede se sia possibile un’altra via, una nuova vita come una persona normale soffocando gli impulsi della sua natura ignota. Nelle tappe, come una novella Dorothy versione freak, prima incontra il creepy Sully (Mark Rylance), cannibale come lei ma con una esperienza e una metodologia che ricordano quella di un serial killer gentile. Le dà i primi rudimenti, le coordinate per muoversi in un mondo nuovo anche se da incubo. Non convinta dalla solitudine malata di Sully, Maren continua il suo viaggio per incontrare Lee (Timothée Chalamet), vampiro cannibale che ha più l’aria di un tossico tormentato a la Kurt Cobain che a un personaggio di Anne Rice. Da lì il viaggio si fa in due, in cerca della madre di lei (e chi se non l’onnipresente Chloë Sevigny?), due solitudini che s’incontrano, corpi celesti abbandonati come quei ragazzi di un film davvero straordinario come River’s Edge (gli anni sono quelli). La generazione X che avrebbe rovinato, un domani, il mondo, dimenticandosi di quelle domande esistenziali che ponevano delle pietre angolari per costruire un mondo migliore che non c’è stato.
Luca Guadagnino è romantico, nostalgico, si ravana l’ombelico credendo che l’amore sia la risposta, e ha ragione: l’amore doveva essere davvero il nostro regno a venire. Marlen e Lee macinano chilometri, setacciano la propria anima alla ricerca di una alternativa che non sia la morte di svariati innocenti o il suicidio. È possibile accettare quel grumo di crudeltà, insicurezze e idiosincrasie che siamo o è preferibile suicidarsi con una bevanda corretta come successe a Jonestown? Una persona sana che ama la vita sceglierebbe la seconda opzione, Guadagnino tenta la strada più difficile, credendo nell’amore di due ragazzi dimenticati. Marlen e Lee sono i ragazzi dimenticati dal mondo, come i bohemien di Nescio, i poeti beat o quella generazione slacker morta con un ago in vena. Il problema è che al di là della forma e della colonna sonora ammiccante, Luca Guadagnino nella sua instancabile retromania, non ha l’afflato di Charles Forsman dove i dialoghi sono essenziali come nelle opere di Samuel Beckett, lì davvero ci sono ‘Bones and all’, la scarnificazione dell’anima, la sensazione di trovarsi sempre sotto il pelo dell’acqua e non poterne mai uscire, dalla propria condizione, dalla propria disabilità nei confronti degli altri esseri umani. The End of the Fucking World è un capolavoro perché nella fuga on the road di due ragazzi innamorati, c’è sempre, qualsiasi scelta venga fatta, il vicolo cieco che è la stessa natura dell’esistenza. Per Bones and All, invece, tutto si riduce al ricordo ormai sbiadito di una adolescenza passata da troppo, non è un colpo allo stomaco ma neanche una carezza, rimane nel mezzo, un’occasione persa per sempre nel ventre molle di un’America che senza Marlen e Lee rimane uguale a sé stessa.