Abbiamo intervistato Chiara Sfregola, classe 1987, scrittrice, sceneggiatrice, diplomata al corso di Produzione del Centro Sperimentale di Cinematografia. Nei suoi libri, ma anche nei suoi articoli, sceneggiature e ted talk, Sfregola si interessa di femminismo e di questioni Lgbtqia+. L’estate verticale (che è anche il titolo del romanzo) è quella del 2001, degli scontri di Genova, dell’attacco alle Torri Gemelle. Ma per le due protagoniste di questa storia, Livia e Veronica, è soprattutto l’estate dopo la terza media. Un momento delicato e difficile da vivere per le due ragazzine molto diverse tra loro ma che fino a quel momento erano unite da una forte amicizia. Il romanzo si divide in sette monologhi, sette voci femminili che, passandosi il testimone si raccontano e finiscono inevitabilmente per intrecciarsi le une con le altre in un unico grande reticolo, una storia lunga vent’anni. L’estate verticale è anche una storia di desiderio, quello di essere viste dall’altra, quello di primeggiare davanti alla prof, quello di essere amate da una donna e quello patologico verso una sostanza, quello materno della figlia abbandonata dalla madre, di una casa... Sfregola: “Penso che il desiderio, in tutte le sue declinazioni, sia davvero il cuore de L’estate verticale”. La scrittrice ci restituisce in questo libro il ritratto di un gruppo di femmine che si amano, si detestano, si tradiscono, si perdonano, si ribellano. Ecco cosa ci ha anticipato l’autrice del romanzo e sul suo nuovo lavoro con Greta Scarano...
Dove hai trovato l’ispirazione per questo tuo nuovo romanzo, L’estate verticale?
L'estate verticale è un libro nato per coagulazione, nel senso che avevo cominciato a scrivere per prima la storia di Chicca, produttrice gelosa di un'attrice. Poi ho iniziato a scrivere la storia di una ragazza che a seguito della morte del padre andava a vivere da questa Lea, che aveva una fidanzata. Mentre cercavo un modo per caratterizzare in maniera interessante il personaggio di questa fidanzata, sono rimasta impressionata da una cosa che mi aveva detto un'amica casting director, di queste attrici che fanno i mercatini in casa e rivendono i vestiti che ricevono gratis. Quest'idea mi piaceva molto, così è nata la figura di Livia, anche se poi ho eliminato questa parte di storia perché nella vita della protagonista c’era un personaggio maschile molto ingombrante, Franco, che qui era fuori luogo, infatti l’ho cancellato subito da L’estate verticale ed è finito in un altro racconto che ho pubblicato per Einaudi, Stare al mondo, dove però la protagonista non va a vivere in un’altra casa. L'idea di elaborare un lutto andando a vivere da qualcuno e di trovare un’attrice in quella nuova casa mi affascinava, ed è rimasta l'idea come mid point del romanzo. Inizialmente infatti volevo fare un libro di racconti ma c'era questa figura, questa attrice, che tornava incessantemente nei miei pensieri e nelle mia parole, finché poi non ho scritto il monologo di Livia, quello che apre il libro: era evidentemente lei la protagonista di questa storia, era lei l’attrice che compariva nelle altre storie: così ho capito che non era più una raccolta di racconti ma un romanzo polifonico, fatto di monologhi, che tutti insieme raccontano vent'anni nella vita di questa attrice. A ispirarmi sono state le mie paure più profonde, il lato oscuro che ciascuno di noi custodisce.
Questo è il tuo quinto libro, tra romanzi e saggi di successo. Quanto è cambiato per te l’approccio alla scrittura rispetto al tuo esordio?
Eh, parecchio. Pensa che L'estate verticale doveva essere il mio romanzo d’esordio! Avevo chiuso Camera single, la rubrica che avevo su Lezpop.it, con l'idea di mettermi a scrivere questo romanzo, e avevo anche iniziato, poi è arrivato l’editore di Camera Single e mi sono messa a lavorare su quello. Circa un anno dopo la sua uscita ho ripreso a scrivere, ma presto mi sono arenata perché toccava delle corde dolorosissime, così per rilassarmi ho iniziato a scrivere Signorina, il saggio-memoir sul matrimonio, che ha preso il sopravvento, quindi poi è uscito quello nel 2020. Dopo Signorina mi sono rimessa su L’estate verticale ma oltre a vari progetti di cinema e TV sono arrivate sia Anna Castelli Ferrieri che Stare al mondo. Nel mezzo c’è stata anche una ripubblicazione di Camera Single! Soltanto intorno all’uscita di Anna Castelli Ferrieri mi sono decisa ad affrontare L’Estate Verticale. Finirlo è stato così difficile che ho dover fare una cura ricostituente dopo. Diciamo che se Camera Single avevo cominciato a scriverlo con un po’ di incoscienza, per divertirmi, L’Estate Verticale l’ho usato per scavare in profondità, e infatti spesso mi sono persa, ci ho messo sette anni e molte risalite in superficie per prendere aria. D’altra parte per affrontare certe tematiche serve un approccio più consapevole. È stato molto doloroso scriverlo e terminarlo, ma penso che se non avessi vissuto tutte queste vite nel frattempo, sposandomi, divorziando, cambiando lavori e case, leggendo scrivendo molto altro, non sarei stata stratificata a sufficienza per farlo.
L’estate verticale è un libro che parla di donne, di sette voci femminili che si raccontano. Ultimamente mi è capitato di pensare a quanta profondità ci sia nel quotidiano e all’urgenza di parlare e leggere di vita reale. Ti capita mai di pensare “vorrei scrivere – e leggere – qualcosa di reale, che mi parli della vita di tutti i giorni”?
Negli ultimi anni c’è stata talmente tanta produzione di autofiction e scrittura di sé, un po’ mutuata a Facebook e Twitter, un profluvio di considerazioni minimaliste sulla vita quotidiana, che di "vita reale" non sentivo più l’urgenza. Non ne potevo più di battutine argute. Le ho fatte anche io. Mi ero stancata dell’ironia acchiappalike, quindi ho fatto tutt’altro. Un romanzo pieno macro eventi, fratture dell’esistenza, periodi di sospensione. Provavo fortissima l’urgenza di raccontare i sentimenti profondi che muovono le nostre azioni, anche le più incomprensibili. Per tornare alla vita di tutti i giorni invece, mi interessava molto il concetto di come ciascuno di noi sia lo/a stronzo/a di turno nel racconto di qualcun altro/a. Ma se ci parli, con la stro*za di turno, saprà spiegarti le sue ragioni. A volte dietro azioni orribili ci sono traumi profondi, a volte segreti indicibili. Non lo dico per giustificare - spesso c’è la stro*zaggine e basta eh - in ogni caso, bisogna capirlo, fare quell’esercizio di empatia che ritengo sia il compito di chi scrive: capire l’animo umano.
Leggendo il tuo romanzo ho percepito fortemente il tema dei desideri, soprattutto di quelli inespressi. Pensi si possa considerare come il cuore pulsante di questa storia?
Hai colto un tema per me fondativo: il desiderio. Una volta a Napoli ho letto una scritta: “Ci muove il desiderio”. La cosa mi è rimasta così impressa che avevo anche consigliato ad una mia amica, Maddalena Vianello, di chiamare così il suo libro sulla maternità. Poi l’ha chiamato In fondo al desiderio (Edito sempre da Fandango Libri) e alla fine ci sta, perché il desiderio va indagato: si nasconde, sebbene muova tutto. Eppure, bada bene, il desiderio è diverso dal bisogno: non sempre ciò che vogliamo è ciò di cui abbiamo bisogno. Non facciamo spesso i conti con ciò che desideriamo realmente, perché capire quali sono i propri desideri richiede di avere una conversazione in atto con sé stessi, un tempo che ci concediamo troppo raramente. Il desiderio è l’assenza, la spinta verso l’altrove. È un desiderio, quello de L’estate verticale, che è lesbico perché in modi diversi è sempre diretto verso una donna: c’è il desiderio di essere viste dall’altra, quello di primeggiare davanti alla prof, quello di essere amate da una donna e quello patologico verso una sostanza, c’è il desiderio erotico dell’amante e quello materno della figlia abbandonata dalla madre, c’è il desiderio di una casa e c’è quello di un’amica che sappia capirci. Penso che il desiderio, in tutte le sue declinazioni, sia davvero il cuore de L’estate verticale.
Mi ha colpito molto una frase del tuo nuovo romanzo: “Così adesso mi trovo nella situazione di scrivere non per dimenticarti ma per evocarti, e finisco col fare quello che facevi tu con me: nel tentativo di capirti, ti invento. Bisogna sempre lavorare di fantasia con ciò che non si conosce fino in fondo. Io conosco te ma non tutto quello che mi hai tenuto nascosto”. C’è sempre qualcosa che ci sfugge in ogni legame che creiamo, per te?
Anche io amo molto quel passaggio. È la voce di Livia a parlare, con la sua regista, Irene, in una lettera che non spedirà mai. C’è qualcosa che ci sfugge di noi stessi, a maggior ragione ci sfuggono molte cose degli altri. Vediamo sempre e solo dalla nostra prospettiva, anche quando giriamo intorno alle cose. Tutti noi abbiamo uno sguardo, ma pochi di noi ne sono davvero consapevoli. Un po’ come il desiderio. Il mio amico Claudio Riccio, che fa delle foto bellissime, ha avuto per anni come biografia di Instagram questa frase: "Cerco un punto di vista sulle cose". Ecco, io cerco persone così. E infatti lui, che ha davvero un punto di vista sulle cose, fa delle foto straordinarie anche con l’intelligenza artificiale. Per esempio ha realizzato un reportage sui funerali di Berlusconi con Midjourney, credibilissimo perché ha capito quali momenti salienti ricreare. Questo è ciò che io chiamo sguardo. La capacità di scomporre un fenomeno, analizzarlo e ricomporlo. C’è uno sforzo creativo in questo, perciò si, guardare è anche un po’ immaginare. Anche nelle memorie c’è una componente di immaginazione. L’immaginazione arriva dove la memoria si ferma, dà un senso ciò che, in quanto umani ci sfugge.
Il romanzo deflagra in un’estate particolare. Penso a come i personaggi si muovono sullo sfondo degli scontri di Genova e della caduta delle torri gemelle, e nel frattempo cambiano, si distruggono e tentano di ricostruirsi.
Il libro è fatto di molte estati ma quella principale, almeno per Livia e Veronica, è quella del 2001. Ricordo vividamente quell’anno: l’opinione pubblica era infuocata, un po’ come sta succedendo in questo momento storico rispetto al conflitto Israelo-palestinese. All’epoca la conversazione attorno alla globalizzazione andava a toccare corde profonde, la nostra stessa idea di futuro. Poi è arrivata la morte di Carlo Giuliani, i fatti della Diaz, e la discussione si è letteralmente polarizzata. Improvvisamente non si parlava più di concetti astratti, di un terzo mondo che tutto sommato costituiva un altrove: lo scontro stava avvenendo qui e ora, in diretta nazionale. Un sentimento analogo a quello dell’evento che ha chiuso quell’estate, la caduta delle Torri Gemelle: non era mai avvenuto un fatto del genere sul suolo statunitense. Gli Stati Uniti hanno fatto per la prima volta i conti col senso di fragilità, che è ciò che succede, in parallelo, alle nostre protagoniste, che in quell’estate sono adolescenti. A quell’età ci si forma una coscienza politica, si capisce di essere vulnerabili, mortali, e a tempo stesso parte di qualcosa di più grande, a cui si può e si deve contribuire. La ricostruzione avviene sempre intorno al primo trauma mai sopra: gli americani hanno costruito attorno al World Trade Center, sopra hanno lasciato il vuoto, un memoriale. I romani hanno fatto la stessa cosa: hanno costruito una città attorno alle rovine dell’impero. Roma, che è molto presente nel libro, mi fa riflettere su questo, è una città gigantesca e popolata ma poi ci sono questi enormi buchi nel mezz. I Fori Imperiali, il Circo Massimo, le Terme di Caracalla, i palazzi crollati sotto i bombardamenti del 1943 a San Lorenzo. È una questione di vuoti e di pieni, ed entrambi hanno la stessa importanza.
“Proprio grazie a quel suo corpo né di uomo né di donna”. Queste sono le parole di Livia nel romanzo, che viene scelta da un famoso regista come protagonista di un film e inizia la sua carriera di attrice. Questa professione rispecchia il suo bisogno di costante mutamento, il suo voler cambiare pelle?
Anche. Ma non all’inizio della sua carriera. Il primo film arriva per puro caso, al momento giusto: in quanto adolescente la voglia di essere finalmente vista, la voglia di piacere a qualcuno. Poi questo bisogno sacrosanto, umano, che abbiamo tutti, di essere visti, quando si fa professione diventa una gabbia, perché in quanto attrice si trova ad essere vista come un oggetto pronto a cambiare pelle per incarnare il desiderio di chi guarda. Le dicono di svuotarsi, di non leggere, di non mettere in mostra la sua intelligenza. E questa cosa inizia a starle stretta. Ma non viene capita. Poi certo, il fatto che l’attrice/attore sia il muta forme per eccellenza per me era l’ideale da un punto di vista simbolico: ogni personaggio di questo libro parla di Livia in termini differenti perché viene vista da ciascuna di loro in maniera differente. Infatti nel primo film interpreta una cyborg, una non-umana, in quello di Irene è una suora, poi ancora interpreta Giorgiana Masi, perché nel frattempo è diventata un simbolo politico. E arriva anche il momento in cui non lavora: un periodo difficile che però la porta a cambiare pelle, questa volta per davvero.
Stai già lavorando ad altri progetti? Ci puoi dare qualche indiscrezione?
Ho scritto diretto e prodotto Sei mesi dopo con Greta Scarano, Marco Rossetti e Daphne Scoccia, un cortometraggio sulla violenza di genere che sta iniziando proprio in questo periodo il suo percorso festivaliero. Inoltre sto lavorando ad altri progetti di regia e sceneggiatura per il cinema e per la televisione, sia per me che per altre persone. Le storie, a prescindere dal mezzo che le ospita, sono ciò che più mi appassiona.