Tutti conoscono la Fondazione Piccolo America. E tutti, almeno una volta, hanno sognato un Cinema Troisi sotto casa. Un cinema che non fosse solo uno schermo e qualche poltrona, ma un luogo da abitare, in cui mangiare, studiare, innamorarsi. Negli anni, quei ragazzi con le mani piene di futuro hanno riscritto l’idea stessa di sala cinematografica, in un Paese che sembra sempre arrivare tardi, troppo tardi, alle cose belle. Hanno portato il cinema fuori dai palazzi, dentro le piazze, in mezzo alla gente. Un nuovo modello culturale, nato da un bisogno urgente, viscerale: quello di non lasciarsi strappare via uno spazio. Un luogo di tutti che rischiava di diventare, come troppo spesso accade, per pochi. C’era una volta il 2012, e un gruppo di ventenni che non sapevano ancora quanto lontano sarebbero arrivati occupò il Cinema America a Trastevere per impedire che venisse demolito. Poi nacquero la Fondazione, il Cinema Troisi, il festival Cinema in Piazza. E Roma cambiò ritmo. Gaspar Noé, Luca Marinelli, Gia Coppola: l’edizione appena conclusa è solo l’ultimo tassello. “È stato molto bello incastrare Sven Marquardt e Tre metri sopra il cielo. Le cose, le proiezioni, le atmosfere anche se diverse possono stare insieme, siamo riusciti a parlare a tutti, e questo è davvero importante per noi”, ci ha raccontato il responsabile della comunicazione della fondazione, Luca La Barbera. Del resto si sa, negli anni sono arrivati davvero tutti, qualche settimana fa c'era persino Al Pacino, a sorpresa durante l’incontro con Mark Ruffalo. Nel 2024 anche Francis Ford Coppola. Insomma, oggi il Cinema Troisi è casa. Una casa fatta di film e di lotte, che forse quei ragazzi, poco più che diciottenni, un tempo non avrebbero neppure osato immaginare. Con Valerio Carocci, presidente della Fondazione, abbiamo parlato di tutto questo: del passato che li ha resi ciò che sono, di un presente ancora pieno di ostacoli e possibilità, e di un futuro che ha bisogno di visione. Ci ha raccontato le crepe di un sistema culturale che annaspa, i rischi (per ora scampati) di una legge regionale, e cosa possono - e devono - fare i ventenni di oggi per abitare davvero le sale. Ma soprattutto, cosa dovrebbero fare le amministrazioni, se davvero il “modello francese” può insegnarci qualcosa e quanto serve farsi sentire per i diritti di tutti, anche quando in pochi vogliono ascoltarci.
Valerio Carocci. L’undicesima edizione del Cinema in Piazza si è conclusa. Com’è andata? Il bilancio è positivo?
Certo, il bilancio è positivo. Abbiamo avuto circa 120 mila spettatori, tantissimi ospiti, un calore straordinario. Anche la gestione delle squadre ha funzionato molto bene, e siamo davvero orgogliosi di questo. La squadra deve reggere: lavoriamo tutto l’anno per questo momento, per formare un team capace di coordinare tutto al meglio. E forse è proprio questo l’orgoglio più grande per me, per noi. Abbiamo anche gestito con maggiore maturità la questione delle piazze, soprattutto in termini di affluenza. Insomma, è andato tutto per il meglio.
Ogni anno si torna a casa con qualcosa in più. Questa volta quali sono state le parole o le riflessioni che ti hanno colpito di più?
Sicuramente le parole di Mark Ruffalo. Ha affrontato temi legati agli spazi, alle sale, alla società: è entrato nel dettaglio delle questioni contemporanee. Molto bello anche il dialogo notturno alla Cervelletta tra Sven Marquardt, Gaspar Noé e Asia Argento. E poi tutto il lavoro che abbiamo svolto sulle sottoculture: è un percorso che ci diverte e ci sorprende ogni volta. Anche il cinema di Massimo D'Anolfi e Martina Parenti ha rappresentato un contributo prezioso. Si è trattato di un lavoro raffinato, inserito in una manifestazione che sa bilanciarsi anche con momenti più “pop”. La cosa bella è aver avuto un pubblico capace di seguire tutte le tipologie di opere audiovisive che abbiamo proposto.
A distanza di anni, quali sono i commenti del pubblico, i consigli dei residenti o di chi ha creduto nella Fondazione Piccolo America sin dal primo momento, che porti ancora con te?
Sicuramente le parole delle persone che ci dicono che ciò che abbiamo fatto ha ispirato altre attività in altri territori. Recentemente mi ha colpito il racconto di un ragazzo del Sud Italia, che mi ha detto di aver cercato di portare nel suo paese quello che abbiamo costruito noi. Questo è davvero bellissimo.
Esiste un “modello Piccolo America” in Italia?
Non saprei dire se il nostro sia un vero e proprio modello. Non credo. Penso però che esista un sentimento, qualcosa che le persone percepiscono. Un’energia che le spinge a pensare che sì, un cambiamento, un’operazione, una trasformazione si possono realizzare. Anche nel nostro caso le difficoltà sono state tante, specie in un settore tutt’altro che semplice. Ma andare avanti per undici anni dimostra che, alla fine, le cose si possono fare.
Hai detto che la nuova legge regionale del Lazio avrebbe potuto “far sparire gli spazi culturali e sociali”. Un appello che, per fortuna, è stato ascoltato. Ma cosa può fare concretamente, ogni giorno, un cittadino o un nostro coetaneo per ribellarsi a tutto ciò che sta accadendo o rischia presto di accadere?
Sicuramente bisogna partecipare. Riempire le sale. In ogni contesto, è fondamentale occupare gli spazi culturali. Poi, se si hanno capacità e idee, bisogna semplicemente agire, sperimentare. Non c’è una direzione obbligata: l’importante è provarci. Se sei ingegnere, avvocato, cinefilo, o hai a disposizione un locale abbandonato, puoi sempre fare qualcosa. Anche solo ringiovanire la comunicazione di una sala o contribuire alla programmazione. Quello che posso dire con più certezza è cosa dovrebbero fare le amministrazioni: agevolare il processo di avvicinamento all’offerta culturale da parte di chi non è già un operatore culturale. Questo è il primo passo. Il secondo è una riforma sull’impatto acustico.
Cosa intendi esattamente con “riforma dell’impatto acustico”?
È evidente che, soprattutto negli spazi chiusi, ci sia un problema nella gestione degli eventi di pubblico spettacolo. Faccio un esempio: a Parigi esiste un limite acustico che consente di suonare. Tutti lo rispettano, e non è oggetto di contenzioso. Da noi, invece, il limite è troppo basso per poter suonare davvero. Non si può controllare, e nessuno lo rispetta. È chiaro che qualcosa non funziona. Sempre a Parigi, hanno finanziato l’insonorizzazione dei club e aumentato i decibel consentiti nei locali di pubblico spettacolo, grazie a un adeguamento tecnologico delle strutture. Questo ha portato alla rinascita di tante sale, teatri, club e spazi di intrattenimento notturno.
E in Italia?
In Italia siamo fermi agli anni Ottanta. Non c’è mai stata una vera riforma. A Parigi, per consentire un impatto acustico più alto, hanno inserito nelle sale dei dispositivi che registrano i dati sonori: delle “scatole nere” che rendono tutto trasparente. Quello che può sembrare un controllo, in realtà è trasparenza. Da noi, invece, se apri una sala, rischi che il condominio accanto ti faccia la guerra per i successivi tre anni. E parliamo di un cinema. C’è una grande difficoltà anche per via dell’incertezza burocratica nel riaprire le strutture.

Parlando di “modelli”: da anni si discute di quello “francese” anche per le sale cinematografiche. Perché la Francia è più avanti di noi? È una questione di maggiore educazione alla settima arte?
Di sicuro in Francia c’è un percorso formativo più solido. Noi, nel nostro piccolo, siamo impegnati con il progetto “Scuole di Cinema” del Miur e del Mic, attivo da due edizioni. Anche il Cinema Troisi e le piazze contribuiscono ad avvicinare le persone al cinema. Ma voglio sottolineare un punto fondamentale: in Francia hanno costruito un sistema che favorisce realmente l’apertura degli spazi culturali. C’è una tutela concreta degli spazi abbandonati affinché possano essere riaperti. È proprio l’approccio che cambia, e non riguarda solo il cinema. In Italia, invece, spesso si va nella direzione opposta, anche per quanto riguarda la riconversione degli spazi. Se si fosse investito per tempo, oggi non ci troveremmo a dover riconvertire così tante sale. Alcune realtà rischiano di chiudere proprio perché non si è voluto investire.
Fondazione Piccolo America prende sempre posizione. Ricordo la bandiera della Palestina proiettata durante il Cinema in Piazza. Quanto è importante per voi farlo? Toccare temi considerati divisivi, far sentire la vostra voce?
È un tema importantissimo. Se l’agire nasce dalla volontà di affermare un diritto individuale e universale, allora tutto cambia. Se invece lo fai solo per essere “il più grande cinema all’aperto del mondo” o per avere “lo schermo più grande”, allora è un’azione fine a sé stessa. Ma se lo fai per generare un cambiamento - normativo, culturale, politico - sulle sale, sull’uso degli spazi pubblici, allora costruisci un terreno su cui anche altri possono camminare. Se credi davvero che il diritto debba essere universale, hai anche la responsabilità di prendere posizione. Ed è proprio lì che si crea un solco: se hai visibilità e non parli mai delle possibilità degli altri, o delle riforme necessarie affinché anche altri possano fare ciò che stai facendo tu, allora stai portando avanti un progetto individuale. Noi, invece, crediamo nella collettività. Sentiamo il dovere di parlare, anche a costo di pagarne le conseguenze. Non voglio - e non posso - venire meno a questo ruolo sociale.
