In un paesino senza nome, il poliziotto Enzo Vitello (Filippo Timi) diventa sempre più ossessionato dall'idea di rintracciare il serial killer che sta seminando terrore e sangue tra i concittadini, il suo nome è “Dostoevskij” e ha l'abitudine di lasciare accanto ai corpi delle sue vittime lettere in cui descrive i loro ultimi momenti. Sedotto dalle note nichiliste dell'assassino e mosso da quelli che si scopriranno essere i demoni interiori che lo tormentano, Vitello a un certo punto della storia incomincia a “dialogare” con l'omicida, senza dirlo a nessuno. La ricerca per lui diventa l’unico motivo per restare in vita e per - in qualche modo assurdo che scopriremo soltanto alla fine - “espiare i propri mali” come in una sorta di Delitto e Castigo al contrario. Vitello è attaccato a Dostoevskij e a sua figlia Ambra (Carlotta Gamba) che molto tempo prima, da piccola, aveva abbandonato per dei motivi che saranno drammaticamente svelati a metà narrazione.
Con Dostoevskij dopo La terra dell’abbastanza, Favolacce, America latina, tornano i Fratelli D’Innocenzo che guardano alla terra selvatica e intoccata. Qualche tempo fa in un'intervista rilasciata a La Stampa, Damiano e Fabio avevano dichiarato che “la periferia era sempre lì con loro, nelle loro vite”, come fosse una sorta di stato mentale. Ecco che anche in questo esperimento seriale resiste l'attaccamento al suolo, alla dinamica di provincia, alla campagna incolta e sudicia come poi lo sono praticamente sempre i figli “sbagliati” delle loro storie. Ma in che senso il cinema dei D'Innocenzo fa male? Perché mette lo spettatore in una situazione di profonda inadeguatezza mentre guarda i drammi interiori dei personaggi sul grande schermo, le loro fatiche, i traumi e le situazioni oscene. Chi è seduto in sala avverte uno sconquasso interiore, è circondato dall’angoscia e a un certo punto si chiede persino perché abbia deciso di vedere la serie (in sala è stata divisa in atto I e II) e infliggersi da solo questa sofferenza. Ebbene, la risposta è molto semplice, perché Damiano e Fabio D’Innocenzo sono straordinari. Nel senso più letterale della parola. I due registi e sceneggiatori che in più occasioni hanno dichiarato di curarsi dell'occhio dell'altro e non tanto di quello del pubblico (e si vede), escono da tutto quello che è considerato normale, specie nella cinematografia nazionale, riuscendo anche in una serie come questa, con una trama da classico thriller, a sorprendere di nuovo lo spettatore con racconti di persone che stanno al mondo con un peso addosso. Soggetti che resistono su questa terra anche se corrosi e pervasi dalla colpa, dall’angoscia, dal Male.
Tra scene di vomito, body horror e colonscopie, in Dostoevskij, sebbene la trasformazione di un personaggio della storia sia chiaramente negativa, il significato filosofico e metaforico che esprime è legato all'importanza della possibilità di cambiamento. Come hanno suggerito Damiano e Fabio durante un q&a, cambiare è possibile, anche in una fase della vita in cui le cose e le persone sopra e sotto di noi sembrano dirci che è tutto finito, qualcosa da qualche parte può ancora iniziare. La serie tv Sky Original realizzata in pellicola da 16 mm - un bell’azzardo autoriale in un sistema in perenne omologazione stilistica soggiogato da cgi e trame tutte uguali - ipotizza un'allucinante e nefasta soluzione che porterà qualcuno a un nuovo (terribile) inizio e noi ad ammirare l'ennesimo progetto riuscito dei D'Innocenzo.