Quasi sempre i giudizi a posteriori sono arrogantemente falsi, delle truffe imbellettate. Fu così a partire dal caso più eclatante, il giudizio sul Medioevo di Voltaire e molti illuministi. Ma un giudizio sul presente, un coccodrillo in vita all’epoca che si sta vivendo è autentico eroismo, di quelli che non hanno bisogno di trombe e svolazzi prima della battaglia campale, perché la battaglia è sempre lì, quotidianamente, e riguarda crudelmente se stessi, il proprio mestiere, la musica derubata del suo senso, del suono stesso. Un tempo spento, incapace di risuonare, di brillare, di accorgersi della bellezza, anche della bellezza invisa ai potenti. Uno “spentoevo”. La parola l’ha inventata un poeta, come capita quasi sempre, Gianfranco Lauretano, che dedica il suo ultimo libro non solo a Caproni, la traccia stilistica e poetica della raccolta, ma proprio a Questo spentoevo (Graphe.it edizioni, 2024), ai nostri anni, a queste generazioni, a questa crisi. Gianfranco Lauretano è un autentico eretico per via della sua profonda devozione verso la lirica, la poesia di cui ci siamo troppo spesso dimenticati. Lo è stato sempre attraverso la sua poesia, in quella Repubblica delle lettere forse pure più in crisi della Repubblica italiana. Ma con questo libro assesta il colpo di grazia a entrambi i mondi, quello dei cittadini e quello dei poeti italiani, che rincorrono ormai disperatamente non solo il facile sensazionalismo ma la pacifica compiacenza verso le egemonie culturali, politiche e mediatiche.
Per farlo taglia corto e se la prende con chi non riconosce la “beltà”, che Lauretano recupera in un dialogo proprio con Giacomo Leopardi, il precursore inattuale, il nostalgico che aprì al futuro della poesia: “Cara Beltà, dunque / non ho capito nulla / alla mia età, a mezzo / secolo dalla culla / ma proprio nulla?” e quanto ci sia di male in questo capir nulla è davvero impossibile da capire. Perché, in tempi di certezze rarefatte e liofilizzate, di verità sintetiche, “per fortuna il cielo di piombo non promette / niente di buono, per fortuna / succede qualcosa che non so”. E se la prende anche con chi, di questa cinica ortodossia a buon mercato, l’ortodossia dello share, si fa alfiere pur cambiando rete, pur tornando a casa, pur muovendosi di qua e di là, tra palinsesti e un circo di costanti che resteranno anonime agli occhi della storia. E dedica una poesia “alla categoria di Fabio Fazio” che inizia così: “Ringhia il servo del potere / non lo senti, sta in silenzio / bada alle apparenze / ma tu sta’ pronto, prepara / la cinghia”. Servi, cioè, di quel potere che “in televisione smonta il bene / con gelida ironia / invisibili catene / perfino simpatia / la bestia sinistra”. Questo spentoevo, che come tutti gli spentievi si smorcia per colpa dei potenti e degli ammaestrati, delle penne addomesticate e degli intellettuali domestici, che spesso sono nella grande editoria, nei programmi tv più popolari. Isabella Bignozzi, su Pangea, parlando della poesia di Lauretano definisce i suoi versi “pieni di precisione e coraggio”. E si dice che Lauretano, pur con l’aria cupa di un poeta che vede fin troppo bene, resta saldo nello “scandalo della speranza”. Perché è così che si fa, in difesa della critica, perché accanto agli scudi ci si apre un varco nel presente. E si tiene duro. Perché nei tempi più duri “Satana si annoia, è incostante / infedele inconsistente / non fa bene neanche il male”. E noi restiamo quelli che “l’eterno / ha concepito per l’unica / risposta che gli importi / dirgli tu”.