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Abbiamo letto “Il soccombente” di Thomas Bernhard: ma com’è? Un romanzo vertiginoso che ci porta nel cuore della mediocrità. Ecco cosa succede a stare accanto a un genio musicale

  • di Paolo Ferrucci Paolo Ferrucci

15 giugno 2025

Abbiamo letto “Il soccombente” di Thomas Bernhard: ma com’è? Un romanzo vertiginoso che ci porta nel cuore della mediocrità. Ecco cosa succede a stare accanto a un genio musicale
Quali sono le conseguenze di una frequentazione con un genio musicale? Una simile relazione esalta o annichilisce? E a quel punto cosa rimane di una passione? Solo alcune delle questioni aperte nel romanzo “Il soccombente” di Thomas Bernhard: capolavoro vertiginoso, incastrato nel “pensai” del narratore, l’esaltato che però non riesce a raggiungere il talento di un altro. Ecco perché vale la pena leggerlo

di Paolo Ferrucci Paolo Ferrucci

“Stranamente ho conosciuto Glenn sul Mönchsberg, il monte della mia infanzia. Veramente lo avevo già visto al Mozarteum, ma con lui non ho scambiato una sola parola prima di quell’incontro sul Mönchsberg, chiamato altresì monte del suicidio perché si presta al suicidio come null’altro al mondo, e infatti tutte le settimane si scagliano da quel monte nell’abisso almeno tre o quattro persone. I suicidi salgono fino in cima con l’ascensore scavato nel cuore della montagna, fanno un paio di passi e poi si scagliano giù nella città”.

(Thomas Bernhard, Il soccombente, Adelphi 1985, pag. 15)

Il Mönchsberg è uno dei cinque monti di Salisburgo, la famosa città che, prima di significare Wolfgang Amadeus Mozart, significa Austria, della quale oggi vogliamo parlare nel modo forse più politicamente scorretto. Non è troppo difficile farlo: basta metter mano a Il soccombente di Thomas Bernhard, quel romanzo stupefacente che dopo i primi tre capoversi si lancia per centottantasei pagine senza più andare a capo, senza guardarsi indietro se non per riagganciare i fili portanti, senza discriminare la storia in sezioni o digressioni, mantenendo quel blocco granitico di dura eloquenza martellante, senza sconti, in un susseguirsi pressoché ininterrotto di “pensai”: “Anche Glenn Gould, il nostro amico e il più importante virtuoso del pianoforte di questo secolo, è arrivato soltanto a cinquantun anni, pensai mentre entravo nella locanda. Solo che non si è tolto la vita come Wertheimer, ma è morto, come si suol dire, di morte naturale. Quattro mesi e mezzo a New York suonando e risuonando le Variazioni Goldberg e L’arte della fuga, quattro mesi e mezzo di Klavierexerzitien, come Glenn Gould ripeteva di continuo e solo in tedesco, pensai”. Tutto comincia quando il narratore e il suo amico Wertheimer si iscrivono al corso tenuto a Salisburgo dal gigante Vladimir Horowitz, dal quale imparano “più che negli otto anni precedenti al Mozarteum e alla Wiener Akademie”. Lì stringono amicizia con il canadese Glenn Gould: l’incontro fatale che devierà definitivamente le loro vite. Mentre loro due sono pianisti brillanti e promettenti, Glenn Gould è la musica, è il pianoforte, è l’invasamento per l’arte. L’improvvisa e brutale consapevolezza di non essere capaci, né ora né mai, di suonare come Glenn Gould li spinge ad abbandonare definitivamente il loro strumento: “Wertheimer mise all’asta al Dorotheum il suo pianoforte a coda Bösendorfer, mentre io un giorno, per evitare che il mio Steinway seguitasse a tormentarmi, lo regalai alla figlia di nove anni di un maestro originario di Neukirchen presso Altmünster”. Il modo in cui il narratore si libera del suo prezioso pianoforte è perfidamente perverso: “Nemmeno per un attimo avevo creduto al talento di sua figlia; di tutti i bambini che vivono in campagna i maestri dicono che hanno del talento, talento per la musica soprattutto, e in realtà invece non hanno il minimo talento, sono tutti bambini assolutamente privi di qualsiasi talento, e il fatto che uno di loro soffi in un flauto o pizzichi una chitarra o strimpelli su un pianoforte non dimostra ancora che abbia del talento. Sapevo di consegnare il mio prezioso strumento a una persona totalmente inetta, proprio a questo scopo lo avevo fatto portare nella casa di quel maestro. In brevissimo tempo la figlia del maestro ha mandato in rovina e reso inservibile il mio prezioso strumento, uno dei migliori strumenti in assoluto, uno dei più rari e dunque dei più ricercati e dunque anche dei più costosi strumenti che ci siano”.

"Il soccombente" (Adelphi) di Thomas Bernhard
"Il soccombente" (Adelphi) di Thomas Bernhard

Ma volevamo dire dell’Austria. In una narrazione fluida e incontenibile, Bernhard ci racconta che esporsi al clima prealpino di Salisburgo rende semplicemente psicopatici, e se non ci se ne allontana per tempo si finisce per diventare ottusi come gli indigeni, che con la loro bruta ottusità annientano tutto ciò che è diverso da loro. Il flusso di ragionamenti del protagonista s’incardina nel suo fare ingresso nella locanda dove intende fermarsi per partecipare al funerale dell’amico suicida, Wertheimer: mentre entra nel locale inanella una ridda di considerazioni concatenanti che durano pagine e pagine, lungo i momenti in cui oltrepassa la soglia e si ferma a guardarsi intorno. “In Austria le locande sono tutte sporche, luride e davvero disgustose, pensai, è raro che in una di queste locande si riesca ad avere sul tavolo una tovaglia pulita, per non parlare di un tovagliolo di stoffa, che in Svizzera è dovunque assolutamente usuale”. Perfino gli alberghi austriaci sono sozzi e disgustosi, dove spesso si limitano a stirare lenzuola già usate, e nemmeno tolgono i ciuffi di capelli lasciati nel lavandino; neppure le stoviglie e le posate sono pulite. La padrona della locanda, ovviamente, è sciatta, lurida e trasandata; quando il narratore, nell’attesa, si avvicina alla finestra della cucina sa già che non vedrà un bel niente, perché la finestra è incrostata da cima a fondo. “Tutte le finestre delle cucine austriache sono sporchissime e attraverso di esse non si vede niente, e questo, pensai, è naturalmente un grandissimo vantaggio, perché in caso contrario si guarderebbe direttamente dentro la catastrofe, nel lurido caos delle cucine austriache”. E pare che Wertheimer abbia dormito più di una volta con la padrona della locanda, “naturalmente, a quanto si racconta, nella locanda di lei e non nel casino di caccia di lui”.

Thomas Bernhard
Thomas Bernhard

Wertheimer, il suicida, viene letteralmente travolto dalla dinamica feroce dell’emulazione verso l’inarrivabilità di Glenn Gould, il genio compagno di studi che un giorno, con noncurante plasticità, l’ha definito “il soccombente” – ovvero un uomo “da vicolo cieco”, come preferisce qualificarlo il narratore, perché ogni volta che Wertheimer usciva da un vicolo cieco entrava in un altro vicolo cieco, dalla casa di Traich a Vienna, da Vienna a Salisburgo, e anche il Mozarteum era stato un vicolo cieco, e così pure la Wiener Akademie, e infine tutti gli anni di studio del pianoforte. “Il nostro soccombente è un esaltato”, aveva detto Glenn una volta, “quasi ininterrottamente è lì che muore di autocommiserazione”. Glenn, praticamente, aveva capito Wertheimer dal primo istante, così come ha capito a fondo fin dalla prima volta tutte le persone che ha conosciuto. “Non c’è niente di più tremendo che vedere un essere umano il quale è talmente grandioso che la sua grandiosità ci annienta, e mentre noi questo processo lo osserviamo e lo sopportiamo e alla fin fine non possiamo far altro che accettarlo, in realtà non crediamo affatto a questo processo, e rimaniamo increduli ancora per molto tempo, fino a quando, pensai, esso si trasforma ai nostri occhi in un fatto incontrovertibile, ma allora non c’è più niente da fare, per noi è finita”. Come recita la quarta di copertina, il soccombere di Wertheimer “è un processo sotterraneo, sottile, che lo distrugge, ma tende a distruggere anche gli altri. Nella sua debolezza, ha il fascino pernicioso di chi attira gli altri nella propria rovina”. Alla fine il soccombente ha fabbricato “una sorta di doppio beffardo, un’ombra sfigurata della perfezione di Gould, quale ultima vendetta della debolezza contro la grazia”. Tutto questo fluisce nella prosa di Bernhard senza requie, in un monologo interiore vivace e iterativo, da flusso di coscienza chiarissimo, dettagliato, con le espressioni impeccabilmente scolpite in modo quasi ossessivo, in un montaggio scenico sapiente che non conosce pause, pieno di rievocazioni considerazioni ricostruzioni dei fatti per andare a ricercarne la genesi e le cause. Vediamo Wertheimer che protesta contro i genitori per averlo gettato nell’orribile ingranaggio dell’esistenza che lo stritola, e spietatamente tiene la sorella legata a sé impedendole di crearsi una vita, e maledice la fuga definitiva di lei che va sposare un magnate svizzero ricco sfondato – che significa molto più ricco di un austriaco ricco: “Mai avrei dovuto lasciarla andare da quell’orrido internista Horch”, recrimina, perché era lì, dal suo medico, che aveva conosciuto quel parvenu dello svizzero. In Svizzera, poi, c’è dissoluzione dappertutto, rincara Wertheimer, fra i paesi d’Europa è il più privo di carattere, e quando ci si trova lì sembra di essere in un bordello. Va da sé che a Vienna Wertheimer non può che restare soffocato, divorato a poco a poco da quei mostri dei viennesi, e l’Austria non può che annientarlo definitivamente: da qui i vagabondaggi nelle proprietà di famiglia, la dimora di campagna, nell’inutile ricerca di sé nelle scienze dello spirito, fatta di frammenti esistenziali, di implicazioni familiari, di stanze piene di solitudine e di lontananza che rafforzano la sua convinzione dell’infelicità come condizione dell’uomo che non si può eludere.

Vienna, capitale dell'Austria
Vienna, capitale dell'Austria

Rievocazioni, testimonianze, visite, colloqui, scampoli di vita, ipotesi ed elucubrazioni: un flusso che dà impeto al racconto e si fa ossessione da basso continuo su molti fronti. Vogliamo parlare dei cosiddetti tribunali distrettuali austriaci? Ogni anno sfornano sentenze basate su errori giudiziari, in modo da avere sulla coscienza una moltitudine di uomini innocenti che scontano dure pene detentive, senza alcuna speranza di essere riabilitati, e tutto questo perché l’Austria è piena di giudici senza scrupoli e di giurati che odiano l’umanità e che, per la propria infelicità e abiezione, si vendicano sulle persone che cadono in loro balìa per qualche circostanza sciagurata. Un’attività diabolica, quella dei tribunali austriaci, che quasi sempre resta impunita. Il soccombente è stato definito un capolavoro vertiginoso che spiega passo per passo come si scende nella scalinata della mediocrità, dove sta la rinuncia, dove abita il tutto e il niente di un musicista: un esempio di come l’entrare nell’orbita del genio comporti il rischio di venirne risucchiati e distrutti. Con le esitazioni di Wertheimer e del narratore verso tutto e tutti, abbiamo un Glenn Gould che affronta ogni cosa con la semplicità della sfacciataggine innata di chi semplicemente è, senza dover dimostrare nulla. “Wertheimer aveva sempre paura che le forze non gli bastassero, Glenn non immaginava neppure che qualcosa potesse essere superiore alle sue forze”. Quando Wertheimer vede Glenn al primo piano del Mozarteum e lo sente suonare, rimane bloccato davanti alla porta, e quella è la sua fine come pianista, anche se lo capirà dopo anni. Una meta che viene scardinata appena Glenn siede al pianoforte a suonare le prime note delle Variazioni Goldberg. Il genio Glenn che vorrebbe essere pianoforte, che per tutta la vita “aveva avuto il desiderio di essere lo Steinway in sé, gli era odiosa l’idea di porsi solamente come intermediario musicale tra Bach e lo Steinway e di essere un giorno stritolato fra Bach e lo Steinway”. Riuscire a essere il pianoforte lo avrebbe esentato dall’essere Glenn Gould, lo avrebbe reso felicemente superfluo, in un rapporto finalmente assoluto con Bach.

“Perfino Horowitz in mancanza di Glenn non sarebbe stato lo stesso Horowitz, quei due si condizionavano a vicenda. Fu un corso che Horowitz fece apposta per Glenn, pensai in piedi nella locanda, nient’altro che questo. Fu Glenn che fece di Horowitz il proprio maestro, non Horowitz che fece di Glenn il genio, pensai”. La corrente narrativa di Bernhard, il suo stile, mantiene la linea diritta del discorso fluviale che procede senza fermarsi e allo stesso tempo segue la rete complessa del rizoma, quella formazione multidimensionale che può estendersi per aggiunta e accrescimento oltre misura, con una struttura dinamica che spesso itera le espressioni per ribadirne il peso, con connessioni continue e continue correzioni di queste connessioni, che portano a conoscere gli aspetti parziali di un tutto che va costruendosi in modo clamorosamente naturale. Una prosa che tiene lontano quel senso di straniamento che, in altre condizioni, si potrebbe innescare, lasciando libera e chiarissima la corsa naturale del racconto. La prima edizione Adelphi de Il soccombente, del 1985, porta in copertina Donne con teste floreali che trovano la pelle d’un piano a coda sulla spiaggia, dipinto da Salvador Dalí nel 1936. Un pianoforte semi-liquefatto viene innalzato a trofeo da enigmatiche muse che sembrano portatrici di annientamento, in un fondale che richiama la celebre Monument Valley in Arizona. Ma l’immagine più inquietante la troviamo nel volume dell’edizione economica, dove campeggia lo sguardo allucinato di uno degli autoritratti spettrali di Léon Spilliaert, del 1907, conservato ai Musées Royaux des Beaux-Arts de Belgique. L’atmosfera cupa, che va dall’opprimente all’onirico, con la sua abbondanza di nero, ben rappresenta la parabola autodistruttiva dell’antieroe Wertheimer, votato da sempre all’infelicità e per questo affascinato dagli esseri umani nella loro infelicità, avido di persone perché sapeva cogliere l’infelicità ovunque ci fossero persone. “Nessuno sa più che sono stato un fanatico allievo del conservatorio, un fanatico virtuoso del pianoforte che si è misurato da pari a pari con Glenn Gould su Brahms e Bach e Schönberg. Ma se l’occultamento di questi fatti, pensai, è sempre stato per me soltanto un vantaggio in quanto si è sempre rivelato della massima utilità, questo medesimo occultamento ha danneggiato assai profondamente il mio amico Wertheimer (…). Tutto sommato, il fatto di aver studiato il pianoforte per me è sempre stato utile, e anzi direi decisivo, proprio perché nessuno ne è più al corrente, perché è un fatto dimenticato e perché io stesso lo tengo nascosto. Per Wertheimer, invece, questo stesso fatto è sempre stato motivo di infelicità, ininterrotto pretesto per la sua depressione esistenziale, pensai. Io suonavo molto meglio di quasi tutti gli altri allievi del conservatorio di musica, pensai, e il fatto di aver smesso da un momento all’altro mi ha reso forte, più forte di quelli, pensai, che non hanno smesso e che non suonavano meglio di me e che, da dilettanti quali erano, hanno trovato una via di scampo per tutta la vita nel farsi chiamare professori e lasciarsi insignire di decorazioni e onorificenze, pensai. Il mondo è pieno di imbecilli musicali che finiti gli studi accademici hanno per così dire intrapreso l’attività concertistica, pensai”.

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