Un culo scolpito nel marmo, fasciato dentro un paio di fuseaux di un colore che dubito sia stato già codificato dalla Pantone, tra il grigio e il verde militare. Cammina lungo viale Toscana, Milano sud. Alla sua sinistra, dall’altra parte della strada, dove un tempo si trovava la Centrale del Latte, sorge il futuristico centro sportivo della Bocconi. Alle sue spalle, e di conseguenza anche alle mie, che sono a qualche metro da quel culo, la Santeria, locale storico milanese dentro il quale si è tenuta la presentazione di “Pastiche- Voce e pianoforte”, album che porta le firme di Francesco De Gregori e Checco Zalone. Sì, quel Checco Zalone lì. La presentazione è iniziata con un ascolto distratto del disco, tra un caffè e un pasticcino, per citare Riccardo Vitanza di Parole & Dintorni, che ha curato la comunicazione del lancio, per poi proseguire con un mini showcase e qualche domanda dei giornalisti presenti. I giornalisti presenti, va detto, sono tantissimi, centinaia, come raramente mi è capitato di vedere. Ci sono praticamente quasi tutti i nomi che ti aspetti di vedere a una presentazione di prestigio, per altro nelle posizioni che ti aspetti che in una presentazione di prestigio occupino, i Pool Guy in prima fila, io assai dietro, e molti che, sulla carta, credo stiano al giornalismo o quantomeno al giornalismo musicale come io sto all’eleganza nel vestire. Sto lasciandomi la Santeria, con ancora dentro quasi tutti i giornalisti, lì a fare chiacchiere postcoitali, e anche gli artisti, celati dai drappi scuri del palco, e sto andando verso la macchina, lasciata incautamente, ma mancavano alternative, parcheggiata in buona compagnia sopra i marciapiedi, per altro sopra un tappeto di vetri dei finestrini di altre macchine, fatto che mi ha fatto stare in allerta per tutta la presentazione. Mettiamo quel culo da parte, poi ci torno. Venendo qui, un paio di ore buone fa, l’ascolto distratto è iniziato intorno alle 14, mi stavo chiedendo a cosa sarei andato incontro. Ho già scritto di questo album, o meglio della notizia di questo album, esternando certe mie perplessità, e arrivando a sostenere, ricorderete, forse, che questo in fondo altro non sia che un tentativo di Francesco De Gregori di disturbarci, come di chi decide di scoreggiare in ascensore. Il pezzo lo trovate qui. Confermo tutto, ma ci arrivo. Andando invece verso la Santeria, mentalmente, mi ero già preparato tutto un discorso introduttivo di questo pezzo, così da portarmi avanti, una volta finita la conferenza stampa.
Qualcosa che suonava supperigiù così: dura la vita dell’artista, partirei da qui. Cioè da un’espressione in grado, con sole cinque parole, di mandare fuori di testa, suppongo, tutti quelli che si alzano la mattina presto per andare a lavorare, magari anche a svolgere uno di quei lavori legittimamente considerati usuranti, che contemplano fatica fisica, sudore, attenzione atta a schivare effettivi e evidenti pericoli. Il fatto è che la vita dell’artista, quella cui Francesco De Gregori ha dedicato l’ormai canonizzata La valigia dell’artista, inizialmente regalata a Alessandro Haber, poi recuperata nel proprio repertorio, è davvero dura. Lo è per tutti i motivi sciorinati in quel testo, dal doversi staccare dall’idea di stabilità, costantemente in giro per alberghi dalla discutibile pulizia, metafora neanche troppo sottile di affetti che col tempo si fatica a tenere saldi, al doversi confrontare col pubblico, quello il cui affetto è la vera paga impagabile, trovando nell’applauso, ricercato ma non sempre presente, conquistato ogni volta, una specie di conferma costante riguardo il proprio essere e il proprio esserci. Un dialogo da portare avanti nel tempo, con se stessi, ma sapendo di essere sempre giudicati, seppur benevolmente, dal pubblico, un po’ meno dalla critica, specie se la critica la espongo io e sei De Gregori, potrei aggiungere, scadendo nell’autobiografismo. Il palco come il divano di un terapeuta severo, certo, comunque capace di risollevarci anche dai dolori che la vita centellina con gesti scomposti, grezzi, apparentemente immotivati. Ecco, volevo partire da qui, per poi arrivare a dire che, a un certo punto, Francesco De Gregori, uno che almeno fino ai primissimi anni Novanta, lo so, stiamo parlando di oltre trent’anni fa, mica è colpa mia, ha scritto pagine assai importanti della nostra musica leggera e non leggera, questo mio sottolinearlo è ormai un classico, a un certo punto Francesco De Gregori deve aver deciso di mollare tutta quella pesantezza che ci ha sempre regalato a secchiate, nascosto a volte dietro l’ermetismo di alcuni suoi testi, altre volte dietro una certa antipatia, almeno così appare in pubblico, e anche distacco, come se degli altri gliene fregasse in fondo poco. E questo suo incontrare la leggerezza, o cercare la leggerezza, si è concretizzato con l’incontro con uno che con la leggerezza ci ha costruito su una carriera mica da ridere, Checco Zalone, lì a suo fianco, credo, non solo come pianista jazz di un certo talento, di pianisti jazz di un certo talento ce ne sono eccome, ma dubito fosse stato un pianista jazz e basta si sarebbe trovato il nome sul frontespizio di un album, e dubito ci sarebbe proprio stato un album. Il fatto è che, lì sul palco, i due funzionano. E funzionano anche se Checco, almeno all’inizio, si trattiene e non fa Checco, ma Luca Medici, suonando e basta. Poi, ovviamente, viene fuori, perché è la sua natura, e De Gregori, miracolo, lo asseconda. Anche se il vero miracolo, sia scritto in grassetto e evidenziato con dovuta cura, è che De Gregori, cantando sulle armonizzazioni al piano di Zalone, è costretto a cantare almeno le due canzoni esattamente per come le ha scritte, ormai una vita fa, Buona notte fiorellino e Pezzi di Vetro fatte con la medesima linea melodica, lui che dal vivo da sempre fa a pezzi le sue creature, seguendo la lezione del suo Dio Bob Dylan, roba mai sentita prima. Poi, va detto, sempre, con Rimmel un po’ ci riesce a rovinare la melodia, vecchi vizi ormai divenuti troppo radicati per essere mandati a puttane con la sola presenza di un altro artista sul palco. Va un po’ peggio, va detto, con Paolo Conte, perché la bella e fotografica Pittori della domenica a De Gregori gli viene proprio male, scorda il testo in più occasioni, si incazza e si vede. Il top, però, è quando Checco prende il sopravvento, presentando la sua Alejandro, canzone, dice, pensata per Julio Iglesias e sorta di dialogo di un uomo di mezza età col proprio pisello, assolutamente assopito. Vedere De Gregori cantarla, con lirismo e trasporto, lascia stupiti, meravigliati. Così come sarà, poi, durante la conferenza, quando Checco lo costringerà a cantare Gli uomini sessuali, brano che in qualche modo è stato fondamentale per farli diventare amici, anni fa. Ok, tutto bello, ma Pastiche? Pastiche è un album ben fatto, ma che lascia abbondantemente il tempo che trova. Perché negli anni De Gregori di dischi dal vivo ne ha fatti a secchiate, anche qui, e perché seppur l’idea di fare cover, qui c’è oltre Conte, anche Venditti, con Le cose della vita, ma De Gregori e Venditti sono stati negli ultimi tempi una coppia di fatto, e Pino Daniele, con Putesse esse allere, anche qui, De Gregori in passato con Pino ci ha fatto un tour, insieme anche alla Mannoia e Ron, e volendo anche Nino Manfredi, visto il rifacimento della sigla del suo Pinocchio, suo di Manfredi, con un brano che però porta anche la firma del Principe, ecco, seppur l’idea di fare cover è bella, un disco dove il focus è acceso sulla presenza di Checco Zalone, il mattatore dei cinema, delle commedie al cinema, il comico che ha messo alla berlina, seppur con compassione, l’italiano medio, ma relegato al ruolo di pianista, beh, diciamolo apertamente, poco aggiunge a quanto sentito sin qui. E dire che, durante la conferenza, è stato proprio Checco a smussare gli spigoli di un De Gregori tornato a indossare la tuta da palombaro, a non rispondere a un giornalista che, partendo dal titolo del solo inedito presente, ha chiesto cosa fosse oggi giusto e cosa sbagliato, o a sottolineare che fare altro da quel che hanno fatto era inutile, ci si dovrebbe accontentare di quel che gli artisti ci regalano, perché, ha detto, il disco è stato fatto per il pubblico, come qualcosa di bello da regalare loro, non per gli artisti, in un passaggio sul finale ha anche sottolineato che se gli artisti dovessero assecondare quel che chiede la gente sarebbe un suicidio. Insomma, non esattamente una simpatia, e in questo ci vedo coerenza, De Gregori è De Gregori, mentre il De Gregori che canta Alejandro o quello che canta I uomini sessuali, che spero faranno dal vivo nelle sole due date previste, il 5 e 9 giugno a Caracalla è qualcosa di mai visto, come mai sentite sono Pezzi di vetro, splendida, o Buonanotte fiorellino per come le ha scritte, non per come le ha digerite una notte in cui ha mangiato la peperonata. De Gregori, per altro, ha detto che di critiche, in vita sua, ne ha ricevute parecchie, ma ci convive serenamente, e ne siamo felici, perché credo, ma forse ci credo perché resto un inguaribile romantico, che i giornalisti presenti, giornalisti che battono le mani alle conferenze stampa, certo, vedi tu come è strano il mondo, dovrebbero tutti sottolineare come Pastiche sia un prodotto carino, sì, ma appunto un prodotto, fatto per fare un po’ di cassa, magari non direttamente ma tirando la volata alle due date a Caracalla, e suppongo altre che spunteranno fuori in seguito. Cioè, capisco l’entusiasmo di Checco Zalone, a suonare con De Gregori e a trovarsi il nome nel medesimo disco, cazzo, ma l’entusiasmo altrui lo capisco meno.
Per questo, uscito da una Santeria stracolma, con dentro anche artisti quali Pacifico e Niccolò Agliardi, immagino grandi estimatori di De Gregori, De Gregori a cui consiglierei di scrivere qualcosa con loro, se mai sentisse necessità di scrivere altri inediti, perché i dodici anni che abbiamo dovuto aspettare prima che ne uscisse uno, Giusto o sbagliato appunto, non sono stati affatto appagati da Giusto o sbagliato, brano decisamente minore della sua produzione. Credo, ma posso sbagliarmi vista la tanta gente presente alla Santeria, che uscire oggi con un lavoro del genere, appunto, non farà poi così cassa, perché nel mentre uscirà un nuovo disco di un trapper che farà miliardi di stream, ma capisco che per i fan sarà comunque qualcosa di piacevole. Io, da fan ortodosso, preferisco ricordarlo da vivo, artisticamente, magari senza quelle aperture al divertissement, ma comunque sempre ispirato. Chiudo, ma immagino qualcuno si starà chiedendo perché io abbia deciso di partire con un pezzo in cui parlo di un album, album che avevo annunciato parlando di De Gregori che scoreggia in ascensore, parlando di, mi cito tra virgolette, “un culo scolpito nel marmo, fasciato dentro un paio di fuseaux di un colore che dubito sia stato già codificato dalla Pantone, tra il grigio e il verde militare”. Semplice, perché non fosse stato per quel culo lì, sia messo agli atti, credo che quella che avete appena letto sarebbe stata l’ennesima stroncatura di un album di Francesco De Gregori, ennesima da che ho ripreso a scrivere, ormai dieci anni fa, invece, metaforizzo, stavolta gli è andata di culo e mi sono limitato a fare giusto qualche congettura in punta di fioretto.