Passati quei giorni in vestaglia tra Natale e Capodanno in cui è consigliabile stare lontano dalle armi e dalle finestre, soprattutto se si abita a un piano alto, ecco l’elenco delle cose migliori viste nei dodici mesi precedenti (senza distinzioni tra film, serie tv, documentari, eccetera), ossia delle cose che dovete assolutamente recuperare nel 2023 se ve le siete perse.
Il 2022 è stato migliore del solito, a Hollywood si è registrata, finalmente, una certa inversione di tendenza rispetto ai dogmi woke che continuano a strangolare la società americana e non solo; un anno in cui, da noi, seppure sottovoce e con vent’anni di ritardo, si è cominciato a parlare apertamente di crisi del cinema.
Più che di crisi bisognerebbe parlare di sfacelo, anzi, di stato vegetativo permanente ancora in vita esclusivamente grazie al ventilatore del denaro pubblico – sotto le mendaci spoglie del tax credit. Ma almeno, appunto, adesso se ne parla, ed è già qualcosa.
10) CURB YOUR ENTHUSIASM - stagione 11 (HBO)
Arrivati a questo punto, dopo oltre 100 puntate e a 75 anni di età, Larry David potrebbe essere primo a prescindere oppure potrebbe anche non comparire in classifica, per manifesta superiorità. Una comicità che non invecchia, fresca come 20 anni fa (nella prima puntata, il personaggio che vuole a tutti i costi un “funerale da vivo”, per potersi godere il cordoglio di amici e parenti, è semplicemente eccezionale) e che se ne frega, da sempre, di quei dettami “inclusivi” imposti dall’ortodossia woke che, nel giro di un decennio, hanno sterilizzato completamente la comicità americana (basta dare un’occhiata a quella vaccata di Ted Lasso).
Resta il mistero di come Larry in Italia sia sostanzialmente uno sconosciuto: ma nel Paese in cui Frank Matano riempie il frigorifero come attore, non c’è niente che stupisca.
9) EVERYTHING, EVERYWHERE ALL AT ONCE
Di questo film si parlerà parecchio nei mesi a venire: molti lo danno come sicuro candidato agli Academy Awards per premi di prestigio.
Tremo al pensiero di come le cariatidi della critica di casa nostra (le Aspesi, i Giusti, eccetera) lo accoglieranno, i paragoni con The Matrix, i Monty Python e altre amenità da boomer.
La verità è che la reference di questo film, che mischia fantascienza a comicità a tratti demenziale, è chiaramente la serie animata Rick and Morty, con il continuo richiamo alla scienza, agli universi paralleli, al relativismo portato alle estreme e paradossali conseguenze.
Non è sicuramente un film per tutti, ma a me è piaciuto, soprattutto l’inizio, quando nei primi 15 minuti fa credere di essere la solita tiritera buonista sulla famiglia di immigrati dove va in scena il conflitto tra i vecchi legati alle tradizioni e giovani liberal fluidi – per poi rivelare, di punto in bianco, la sua vera natura surreale.
8) ALL QUIET ON THE WESTERN FRONT (Netflix)
C’era davvero bisogno di un altro film sulla prima guerra mondiale? Si, perché a farlo non sono stati gli americani, con le loro brave certezze manichee, ma i tedeschi, che la guerra l’hanno provocata, l’hanno persa e poi dalle macerie si sono inventati Hitler e il nazional-socialismo. La guerra dal punto di vista dei vinti, insomma: una rarità in questi tempi bui di pensiero unico.
7) THE CROWN – stagione 5 (Netflix)
Alla morte della regina Elisabetta, a settembre, si poteva pensare di mettere The Crown al primo posto. Unica serie di qualità nell’oceano di spazzatura targato Netflix, scritta bene e recitata meglio, soprattutto nelle stagioni 3 e 4, le migliori, giustamente premiate a Emmy e Golden Globes.
Poi però a novembre è uscita la stagione 5, incentrata sugli ultimi anni di vita di Diana: forse per la troppa vicinanza temporale con gli eventi narrati, che impedisce una vera “prospettiva storica”; forse perché cambiare gli attori è un terno al lotto, e a volte funziona (come era funzionato tra la seconda e la terza stagione) e a volte no; forse perché, semplicemente, Netflix è incapace di generare qualità, e anche quando per caso ci riesce (per esempio con Stranger Things) poi rovina il prodotto fino a fartelo odiare, fatto sta che quest’anno le vicende dei Windsor non sono state all’altezza.
Ma se ancora non avete visto le stagioni precedenti recuperatele. Ne vale la pena.
6) SEVERANCE - stagione 1 (Apple TV)
Prima serie davvero di qualità prodotta da Apple, basata su una premessa molto interessante: in un futuro prossimo, le persone possono scegliere di separare la loro memoria in due, dividendo i loro ricordi tra quelli ambientati in ufficio e quelli appartenenti alla loro vita di tutti i giorni. Di fatto, gli esseri umani si sdoppiano: per un singolo individuo, c’è una versione di lui al lavoro e una di quella stessa persona nel tempo libero, e le due versioni non hanno alcuna memoria l’una dell’altra.
Si tratta, come si vede, di una premessa satirica, che riflette con meccanismo di paradosso su alcuni grandi temi della modernità, come il bilanciamento tra vita lavorativa e extra-lavorativa o l’alienazione che giocoforza sperimenta chi è impiegato nel post-terziario da ufficio; ma il tono con cui è girata - si tratta di un thriller - introduce una serie di riflessioni sulle responsabilità individuali assolutamente non banali: era dai tempi di Breaking Bad, delle ultime stagioni di Madmen e dalle prime di House of Cards che una serie americana mainstream non si faceva così ambiziosa da un punto di vista etico.
La perfezione di fotografia, scenografia, e soprattutto della regia di Ben Stiller (proprio lui) unita ai nomi che compongono il cast (Adam Scott, Britt Lower, John Turturro cui nessuno toglierà una grande stagioni di premi) fanno di Severance una delle serie da vedere assolutamente.
5) BLONDE (Netflix)
Approcciandomi a questo film, biopic sulla vita di Marilyn Monroe, le mie aspettative erano pari a zero. Sia perché parlavamo di Netflix (che però non ha prodotto il film, ma questo l’ho scoperto dopo), sia perché ero già rimasto scottato da quella vaccata di Elvis di Baz Luhrmann, uno che non azzecca un film dal 2001 (Moulin Rouge) e che però continua serenamente a lavorare con budget faraonici (segno che certe dinamiche non esistono solo in Italia).
Invece Blonde – come tutti i film co-prodotti da Brad Pitt con la sua Plan B – è un grande film, che si merita pienamente i dodici minuti di ovazione con cui è stato accolto a Venezia.
Intanto perché sovverte le regole del biopic, senza cedere nemmeno un secondo alla retorica; e poi, soprattutto, perché’ ha il coraggio di trattare il materiale narrativo come fosse un horror, perché un horror è stata la vita di Norma Mortenson (vero nome di Marilyn).
Ottiche, taglio delle inquadrature, angoli di ripresa, musiche, alternanza tra colori e bianco e nero: in certi punti siamo vicini addirittura all’espressionismo tedesco, mentre l’insistenza con cui la camera indugia sul corpo di Marilyn, mostrato e rimostrato nell’atto del soffrire, mi ha fatto venire in mente la Passione di Cristo di Mel Gibson.
Straordinario il piano sequenza in close-up in cui Marilyn viene forzata dal Presidente Kennedy a praticargli una fellatio. Straordinaria perché nella brutalità di quella scena con protagonisti due icone pop del Novecento, c’è tutta la sopraffazione perpetrata dalla società americana nei confronti del genere femminile, di cui Marilyn Monroe, morta suicida a 36 anni, è rappresentazione esemplare.
Sono dunque rimasto stupefatto quando ho letto il massacro che di Blonde hanno fatto i critici americani, che hanno accusato il film di pornografia e sfruttamento del corpo della donna. Non solo non c’è niente di pornografico, ma nemmeno di erotico nel modo in cui la violenza viene mostrata. E del resto, il film si basa su fatti reali; ma evidentemente, oggi, neppure questo è abbastanza: negli Stati Uniti di oggi la libertà di espressione è talmente compressa che il male non può essere mostrato a prescindere e le donne sono come dei panda, esemplari da tutelare, cui non si riconosce la capacità di rapportarsi criticamente a un contenuto.
Per quanto ci saranno artisti determinati a opporsi a questo modo di ragionare folle, disposti a buttare nel cesso milioni di dollari per provarci?
4) FAUDA – stagione 4 (Netflix)
Con Fauda è accaduto un po’ quello che è accaduto con The Crown: quando ho saputo che sarebbe uscita una nuova stagione ho pensato che l’avrei inserita al primo posto. Ma la stagione in questione, interamente prodotta Netflix, come per The Crown si è rivelata la peggiore della serie.
Resta il fatto che Fauda, che per chi non la conoscesse racconta “in presa diretta” il conflitto tra israeliani e palestinesi, rimane nel complesso una delle migliori opere di finzione con ambizioni documentaristiche mai uscite, e che le prime due stagioni (con cui Netflix non aveva nulla a che fare) sono un must-watch da recuperare a tutti i costi, e da spararsi un episodio dopo l’altro mentre fuori ci abbraccerà il cielo bianco di gennaio.
3) THE WHITE LOTUS – stagione 2 (HBO)
The White Lotus sembra una serie spuntata dal nulla, perché da noi se ne parla solo da qualche settimana, cioè da quando Sky ha trasmesso l’ultima puntata della seconda stagione ambientata in Sicilia.
In realtà, The White Lotus fu pluripremiata anche l’anno scorso, con la prima stagione ambientata alle Hawaii. E il suo creatore, Mike White, non è esattamente uno che ha cominciato ieri: a meno di trent’anni scriveva per Dawson’s Creek, ha fatto guadagnare decine di milioni di dollari ai produttori di School of Rock, ha vinto il Sundance, è stato presidente di giuria del Sundance, nell’ultimo decennio ha messo il naso, creditato o non creditato, in decine di progetti HBO.
Tutte queste premesse perché da noi sembra sempre che le cose capitino per caso, che i successi siano frutto della fortuna, o che si tratti di una semplice moda collettiva.
Che The White Lotus sarebbe stato un successo lo si poteva prevedere due anni fa, quando la serie fu annunciata, vedendo come HBO metteva a disposizione il suo A-Team nei ruoli-chiave. Il risultato, poi, è andato oltre le aspettative, per merito di un congegno narrativo a orologeria, basato su tre punti fondamentali: un tema centrale forte (invero, questa stagione più frivolo e meno politico dell’anno scorso); un gruppo di personaggi ben definiti, che sfuggono al cliché in quanto funzionali al tema, portatori ognuno di un punto di vista forte sul tema in modo da scatenare rapidamente un conflitto; ma soprattutto, l’idea geniale delle coordinate spazio-temporali stabilite e dichiarate dall’inizio, il resort di lusso (l’hotel San Domenico di Taormina) e la classica settimana di vacanza all-inclusive.
I più maliziosi noteranno i colpi sotto la cintura inflitti alla morale woke (occhio, da qui in avanti spoiler): il ventenne nemico della “toxic masculinity” uccellato come un tordo da una ragazza italiana “di facili costumi”; la coppia liberal ultrasnob, che si sente buona e giusta per partito preso, ma che finisce per diventare eticamente identica agli odiati omologhi repubblicani; e via dicendo.
Noi italiani invece noteremo come, per una volta, gli americani rappresentino il nostro Paese andando oltre lo stereotipo del giro in Vespa, che da Fellini in poi ci tocca come una condanna ogni volta che una telecamera a stelle e strisce entra in Italia: puro godimento quando il suddetto giro in Vespa tentato da una coppia di turisti inizia malissimo e finisce peggio, inner joke che dimostra quanto la scrittura sia per una volta autentica.
Ma aldilà del discorso politico o sociale, The White Lotus è soprattutto una serie che intrattiene e che si fa guardare con maledetta facilità, capace con due inquadrature di descrivere un luogo, con due linee di dialogo di inquadrare un personaggio.
E una menzione speciale per il casting, con Sabrina Impacciatore che – perdonate il francesismo – caga in testa alle improponibili colleghe che ci ammorbano nei film italiani che nessuno guarderà.
2) TOP GUN: MAVERICK
Ci sono libri la cui importanza storica supera di gran lunga il valore letterario, e che per questo sono ricordati in eterno. Per Top Gun: Maverick vale lo stesso discorso, traslato in campo cinematografico.
Il seguito di uno dei più grandi successi commerciali degli anni ’80 doveva uscire il 12 luglio 2019, ma venne spostato perché Tom Cruise, nella sua follia visionaria, impose che per girare le sequenze sugli aerei, invece di far ricorso esclusivamente a CGI e effetti speciali, gli attori salissero materialmente su una versione modificata degli aerei F/A 18E Super Hornet in uso all’aeronautica militare americana. Su ogni mezzo venne realmente installato un secondo cockpit: nel primo sedeva il vero pilota, nel secondo l’attore che nel film interpretava il ruolo del pilota, con 6 telecamere Sony Venice 6K (le uniche a girare direttamente in formato nativo IMAX) a riprenderlo mentre recitava - il tutto alla modica cifra di 11 mila euro l’ora per ogni aereo noleggiato.
Un’operazione titanica, costata un anno di lavoro extra, giusto il tempo perché il film, spostato al giugno 2020, finisse in piena Covid-era.
Ulteriori ritardi, a quel punto, volevano dire altre decine di milioni di soldi da anticipare ai finanziatori desiderosi di rientrare dell’investimento fatto (170 milioni il budget dichiarato senza spese di marketing): ma di nuovo, invece di cedere alle sirene dei giganti dello streaming, Tom Cruise si è opposto, ha pagato di tasca sua e ha tenuto fermo il progetto due anni, fino al maggio di quest’anno, perché voleva a tutti i costi che le persone potessero godere di questo film unico nel suo genere al cinema, come era stato concepito.
Perché, come già per l’ultimo Mission Impossible, fosse chiaro a tutti che il cinema non è assolutamente morto, se soltanto dai agli spettatori una ragione vera per andarci.
I fatti gli hanno dato ragione: Top Gun: Maverick ha incassato 1,5 miliardi di dollari ed è oggi in corsa per tutti i premi principali – Academy award come miglior film dell’anno incluso, una cosa che, in epoca di impegno sociale a tutti i costi, per un titolo del genere suona come una bestemmia.
È la rivincita del cinema come spettacolo, come mezzo per sognare e non per educare, la migliore risposta a quei babbioni che parlano di “crisi irreversibile”. La crisi c’è quando l’unica cosa da vedere è il milionesimo film con Tony Servillo, la milionesima commedia con Claudio Bisio, la milionesima mappazza con Favino nei panni di (inserire nome a caso di persona famosa in Italia negli ultimi 50 anni).
Si, d’accordo, il budget e tutto il resto: ma alla base, come si vede, c’è il rischio. Proprio quello che i soloni del cinema di casa nostra hanno smesso di prendersi da circa vent’anni.
1) HOUSE OF THE DRAGON – stagione 1 (HBO)
Per capire come mai HBO sia leader indiscusso nella produzione di quality tv basta andare a leggersi il procedimento seguito per creare il primo spin-off di Game of Thrones, operazione che per la stessa HBO era una questione di vita o di morte. In un mondo in cui si sopravvive esclusivamente grazie alle IP, GoT era di fatto l’unica grande proprietà intellettuale nativa HBO, che non a caso non aveva mai prodotto un sequel o un prequel di un proprio show.
Così, nel 2016, analizzando l’intero corpus di lavoro di George R.R. Martin sono stati individuati 15 possibili spunti narrativi per sviluppare una serie (prequel o sequel che fosse); questi spunti sono stati sviluppati internamente e ridotti a 5; a quel punto, e siamo già a ridosso della fine della serie principale e della contestata (a torto) ottava stagione, ognuno di questi 5 pitch è stato assegnato a un gruppo di lavoro.
A spuntarla fu uno show chiamato The Long Night, con protagonista Naomi Watts e ambientato otto mila anni prima i fatti raccontati in GoT. HBO ordinò il pilot, che venne prodotto con la cifra record di 35 milioni di dollari.
Ed è a questo punto che accade l’imponderabile: insoddisfatti del risultato ottenuto, i vertici HBO cestinarono il costosissimo pilota e ripartono da capo, per identificare due anni dopo House of the Dragon come il prequel destinato a vedere la luce.
Ecco, basta questo lungo aneddoto per capire quanto HBO sia davvero un mondo a parte, l’ultima trincea di qualità in un mondo di serie TV una più inguardabile dell’altra; e per spiegare come mai House of the Dragon sia uno show “giusto”, nel senso che aldilà del marketing e del budget stratosferico (200 milioni, record per una singola stagione, battuta dalla serie Amazon sul Signore degli Anelli ma li la cifra è dopata dalla valanga di milioni scuciti per i diritti), rimane fedele e per certi sviluppa ulteriormente quello che era il cuore più profondo della serie originale.
Non i draghi, che comunque ci sono in quantità industriale, ma la sua natura di dramma politico: non a caso, il pitch originale che David Benioff e D.B. Weiss fecero alla rete nel 2009 per parlargli di quella che allora era una saga fantasy nota solo agli adepti cominciava con questa frase: “Sopranos meets Lord of The Ring”.