“È l’amore che ama, l’amore che ama amare”, scriveva Van Morrison in Madame George e Ancora un’estate - ultimo film di Catherine Breillat - è l’equivalente cinematografico di quel gioiello oscuro che Morrison ci regalò nel 1968. Remake danese del film Queen of Hearts, ma traslato nello stile lucido e sensuale della Breillat, Ancora un’estate merita - e siamo solo a marzo - di classificarsi già nei fastidiosi top 10 di fine anno. Come per le migliori opere, questo film parla di persone, persone bloccate nella loro stessa pelle che, col passare degli anni, diventa più spessa, dura e sgradevole per colpa di quei calli, o quella corazza, che ci ostiniamo a chiamare “esperienza”. L’avvocata Anne (Léa Drucker), specializzata nella tutela dei minori, ha una bella famiglia col marito Pierre (Olivier Rabourdin) e due bambine adottate; l’equilibrio famigliare viene messo alla prova dall’arrivo di Théo (Samuel Kircher), figlio diciasettenne del primo matrimonio di Pierre e dall’attrazione prima sentimentale e poi sessuale tra Anne e Théo. Catherine Breillat ha sempre raccontato le persone attraverso la sessualità, e l’ha fatto chirurgicamente come un’antropologa che al pubblico è sempre sembrata spietata. Chi l’ha amata per Fat Girl, andando poi a ritroso per recuperare la sua filmografia, sa quanto possa essere impietosa nelle istantanee sull’animo umano, sull’attenta analisi dei nostri desideri anche sbagliati, ma Breillat non giudica mai e sta in questo la sua genialità e in Ancora un’estate stempera gli angoli regalandoci un’opera piena di imperfetta, patetica e meravigliosa umanità.
Théo sembra una versione minore, meno bella e più raggiungibile, del Tadzio di Morte a Venezia, ma non per questo meno capace di applicare la malizia dei bambini benché il suo corpo sia vicino all’età adulta. Anne, l’androgina Drucker, cerca genuinamente, anche in virtù di una certa deformazione professionale, di aiutare il ragazzo a ricostruire un rapporto col padre, ma il venire a contatto nella realtà domestica isolata in campagna con l’inquietudine di Thèo riporta Anne indietro con la memoria, a un tempo che doveva essere e non è stato come sperava. I tanti e piccoli tableaux che mostrano l’estate di Anne e Théo con le bambine (mentre Pierre è quasi sempre via per il lavoro lasciando spazio a una famiglia ‘disfunzionale’) hanno la bellezza di una polaroid ritrovata, per caso, in un libro, e le musiche firmate da Kim Gordon, così come il bellissimo brano Venti anni di Léo Ferré e un vecchio ripescaggio dei Sonic Youth (Dirty Boots), cristallizzano quei momenti nell’eternità della memoria. Anne sente di dovere riscuotere un credito formativo dalla vita, che la sua coming of age è stata interrotta bruscamente ma non ci è dato sapere perché: in una bellissima scena in un pomeriggio assolato estivo, Anne viene intervistata per gioco da Théo che, con tutta l’inesperienza e la sua genuina crudeltà della giovane età, cerca di penetrare le private stanze dell’animo della donna. Il film si apre con una vittima di uno stupro, la ritrosia di Anne di fronte all’intervista di Théo sembra suggerisci che qualcosa di terribile le sia accaduto durante l’adolescenza, ma come scrisse qualcuno: ‘Che ognuno tenga per sé il suo dolore più profondo’. In questi dialoghi basati più su delle verità universali che sui fatti, emergono la bravura di Pascal Bonitzer e Breillat entrambi alla sceneggiatura: ci interessa nell’economia dell’educazione sentimentale di Anne e Théo tutto ciò? No.
Il film si apre con una vittima di uno stupro, la ritrosia di Anne di fronte all’intervista di Théo sembra suggerisci che qualcosa di terribile le sia accaduto durante l’adolescenza, ma come scrisse qualcuno: “Che ognuno tenga per sé il suo dolore più profondo”. In questi dialoghi basati più su delle verità universali che sui fatti, emergono la bravura di Pascal Bonitzer e Breillat entrambi alla sceneggiatura: ci interessa nell’economia dell’educazione sentimentale di Anne e Théo tutto ciò? No. Rilevante è quando Anne in un incontro amoroso col marito parla della sua cotta giovanile per un uomo di 33 anni che al suo sguardo di ragazzina ‘pareva stesse per morire’. Come cambia la percezione di cose e persone, soprattutto quando passata la gioventù si diventa uno spettatore sofferto della propria vita. Quando Anne prova a chiudere col figliastro inizia la vera entropia, il disagio che una coppia crea dopo essersi amata -e che forse si ama ancora- in due fronti opposti, dove chi hai amato rappresenta il contingente nemico. Se i comportamenti di Théo ricordano i vagiti di un infante che ottiene ciò che vuole con la prepotenza, la crudeltà delle donne – e Catherine Breillat è una maestra nel portarla in scena- è qualcosa di terribile come ammetterà la stessa Anne. Ancora un’estate è un film poetico quanto scorretto: rovescia il #metoo contro le stesse donne bianche cis etero che se ne sono appropriate, e le porta a comportarsi nello stesso modo sgradevole e bugiardo di qualsiasi uomo sia stato accusato negli ultimi anni; mette in scena gli stupidi ricatti che riserviamo a chi non ci vuole più, e le bugie che ci raccontiamo per non ammettere che assecondando i nostri desideri -puerili o meno- saremmo tutti più felici. Ancora un’estate, come ogni film della Breillat, è terribilmente erotico soprattutto perché non si vede nulla, si sente tutto sulla pelle in un gioco di primissimi piani e sguardi rubati che riporta lo spettatore indietro all’epoca prime uscite, ai primi ‘amori’ quando il solo sfiorare la mano di lui e di lei faceva salire il sangue al cervello – nell’epoca di pornhub non basta un piatto di gricia vomitato da tutti gli orifizi possibili-. Erotismo che si trasforma in tenerezza quando è Pierre a fare l’amore con Anne: un uomo in forte sovrappeso, pieno di rughe, un corpo che ha affrontato la natura e ne è uscito gloriosamente sconfitto. Catherine Breillat non fa body shaming o dell’ageismo e forse questo film farà davvero incazzare qualcuno che crede che una donna vicino alla terza età non possa innamorarsi di un minorenne (contrariamente è accettato per una questione atavica e di profonda ipocrisia), ma è necessario parlarne in un mondo che se ha rinunciato all’amore è solo per il culto dell’eterna giovinezza. Dove Pierre accetta le beffe che la natura ci infligge svanita la giovinezza, Anne vive una tenera e frustrante dicotomia che solo il marito, forse, sembra cogliere. E chi è Pierre per non avere compassione delle tribolazioni di una moglie che vuole vivere, ancora per un attimo, sotto il sole di quella estate infinita che, per dirla come Nescio, esisterà sempre finché esisteranno ragazzi di 19/20 anni?