Dio dei friendzionati, dei sottoni che aspettano la notifica WhatsApp, della noia in fila al reparto salumi con le mani a torturare un foglietto/numeretto o le ditate al telefono. Dio del “sono subito da lei”, dio della musichetta d’attesa al call center di banca posta acqua luce gas telefono tv. Dio dei colleghi trascurati. Dei momenti vuoti. Dei purgatori sociali. Dio beckettiano dei frammezzi, pensaci tu. Dacci quel tot di fede per passare il tempo senza che l’anima si trasformi, lei, in Godot e cominci a guardarci male. E già che sei lì trova un degno incarico a Massimo Giannini. Un supergiornalista, uno che nel codice genetico ha editoriali, riunioni di redazione e forse una linotype, uno che ha il carisma/destino del direttore, ma che al momento non si capisce bene che faccia. Accendi il programma di Fazio e trovi Giannini. Sulla dichiarazione del papa riguardo alla bandiera bianca ucraina commenta: “Vogliamo considerare un putinista anche Papa Francesco? Sta facendo un discorso sul valore del negoziato”. Condivisibile, a meno di non pensare che Bergoglio sia pagato dalla Russia. Sugli Usa: “Dobbiamo preoccuparci se vince Trump. Offrirebbe un quadro valoriale preoccupante”. Condivisibile, e che no? Sulla questione della fuga di dati dalla Direzione Nazionale Antimafia: “Quanto a parlare di dossieraggio e di attacco alla democrazia ci andrei cauto”. Bene. E poi? Poi c’è il podcast di Giannini, che nell’ultima puntata dice che Antonio Tajani ricorda Forlani, che Renzi e Calenda come centro non funzionano granché, e che la speranza di democrazia cristiana non ha un grande futuro. Ribene. Poi ci sono gli editoriali di Giannini, sempre inappuntabili, che ultimamente restano lì, ricami sulla linea di Repubblica, senza guizzi o emozioni.
È vero che Giannini soffre la situazione dei media italiani e che quindi il suo diventa un caso di scuola per soppesare – ecco, il dio beckettiano dei frammezzi è anche il dio dei soppesamenti – lo stato dell’informazione. Tanti giornali diretti da ottimi cronisti che non hanno il carisma del direttore, mentre i direttori nati – Giannini lo è – rimangono in attesa del loro momento. Anche la programmazione televisiva ha un po’ quest’aria da musichetta d’attesa: formule che rimangono le stesse da decenni, ospiti fissi a giro sempre uguali. Una parola all’opinionista rispettabile, qualche minuto e fiero cipiglio verso un qualche facinoroso che fa colore e dibattito. Sintesi del conduttorə, a dare un’aria narrativo monologica, e aspettare una qualche conferma di democristissimo share, e tirare giornata. L’apoteosi del dio del frammezzo, dei soppesamenti, della fila alla posta, anche in tv. Giannini soffre questo, certo, e anche la mancata ascesa a direttore di Repubblica, in quello che sembrava un destino naturale è stato superato dall’uomo forte degli Elkann, Maurizio Molinari, concausa il discorso di addio ai funerali di Eugenio Scalfari, un’orazione funebre che è stata presa da molti come una autocandidatura troppo sicura alla direzione del giornale di Largo Fochetti. Si sa che Roma è Roma. Poco santa, molto dannata (vedi Dago) ma soprattutto attenta nevroticamente a mosse mossette ed etichetta. Altro che sbracata, è la città più formale e curiale del mondo. Curia per curia: in conclave chi entra papa esce cardinale.
Anche come direttore de La Stampa Giannini è durato meno di quanto doveva. Preparatissimo, in redazione per primo e a casa per ultimo, pieno di idee e proposte, portatore sano di cazzeggio romano a Torino e gran rompicoglioni, secondo molti aveva la grinta per rivoluzionare il giornale. Ma anche lì, doveva restare fino al 2024, è andato via a ottobre 2023. È stato accusato di aver fatto una Stampa troppo massimalista, quasi da pugno alzato, e c’è chi dice che il suo ritorno come editorialista a Repubblica sia frutto di qualche buona chiacchierata degli Elkann con il giro del governo Meloni. Ammesso che sia vero non stupirebbe: si sa che in Italia oltre alle curie ci sono varie tribù in una perenne, anche se spesso non chiarissima, dialettica. Al di là del caso (che non c’è), del personaggio (che c’è) la vicenda di Massimo Giannini e soprattutto il suo vuoto attuale dice tanto di un’informazione e di un’Italia appesa – politicamente, informativamente – al dio della musichetta d’attesa. Al dio beckettiano del frammezzo. Un’Italia friendzonata, via.