Lo sospettavamo: Roberto Vannacci alla prima scaramuccia si è fatto battere dal primo venuto. Cosa volete farci: il teatrino tv può essere più insidioso di un teatro di guerra Nato. Ieri sera, a Dimartedì, ha vissuto il battesimo del fuoco: era il suo primo vero confronto a due, e gli è capitato Carlo Calenda. Quando si dice la sfiga. Finora la campagna di conquista si era mossa, sul piccolo schermo, in quadranti protetti, simpatizzanti, da Paolo Del Debbio o Nicola Porro. Ma la strategia dell’ex comandante degli arditi pare ora estendere l’esportazione di democrazia modello parà a territori privi di salvacondotto: pur di apparire e vendere il suo nuovo, perdibilissimo libro autobiografico, si è offerto anche a quei lestofanti di Un giorno da pecora, che abili a tirar fuori il lato macchiettistico di chiunque ci hanno fatto scoprire che financo lui, il teorico della normalità più pizzosa, ha avuto una storiella con una “mulatta”, e persino, a 19 anni, si è lasciato indurre in inganno dalle fattezze di una donna che tanto donna non era, bensì un “transessuale”. L’inventario del pour parler da spogliatoio maschile c’è quasi tutto. Ma il pugnace generale non è tipo da schivare i salottini della chiacchiera: se lì è la trincea della visibilità, lì bisogna combattere. Avanti, Savoia.
Deve però aver sottovalutato quel perfidone di Giovanni Floris. Alè: non avendo di peggio, gli ha messo contro Calenda. Ora, tutto si può dire del leader di Azione (che veleggia a circa ben l’1% nei sondaggi, a essere ottimisti), ma non che non sia appassionato di storia, specialmente romana. Lo ha ricordato e sottolineato, per ribattere alla nota tesi vannacciana della anormalità (puramente statistica, per carità) della minoranza omosessuale. Alessandro Magno, Giulio Cesare, Adriano, condottieri di vaglia, erano tutti bisex. Lasciamo stare che non per questo chiedevano il riconoscimento dei diritti lgbtq+, tuttavia che il concetto di “normale” sia quanto meno scivoloso, lo ha confermato suo malgrado proprio Vannacci, controbattendo che la normalità è la semplice istantanea della norma maggioritaria in un dato momento storico. Vero, ma a quel punto ha avuto buon gioco Calenda a sbottare: “E allora?”. In effetti, giocare al piccolo computatore Istat lascia il tempo che trova. A meno che il signor generale - e pure qui Calenda lo ha messo ko tecnico - usando la categoria di normalità non voglia surrettiziamente far passare un giudizio di valore.
Il giochetto verbale, scoperto e terra terra, si è visto ancor meglio quando si è parlato di Paolo Egonu. Nel Mondo al contrario, Vannacci scrive che non è esattamente una rappresentante dell’“italianità”, dati i tratti somatici. La Egonu, anziché liquidarlo con una sprezzante risata, lo ha denunciato per diffamazione. Floris, briccone, ha mostrato le foto di Mattia Furlani, Zaynab Dosso e Lorenzo Simonelli, tutti e tre atleti di colore che hanno dato lustro all’Italia ai mondiali di Glasgow, per dimostrare che non è la diversità genetica a fare il buon italiano. Ma niente, per il generale no: “Non è così”. E Calenda, di rimando: “Ma chi se ne frega! Oggi sa perché questi sono italiani? Perché studiano in Italia, hanno cittadinanza italiana e per la Repubblica sono italiani!”. Ora, qualcosa potrebbe anche fregare, non foss’altro perché testimonia un fatto: la presenza di immigrati, da trent’anni a questa parte, si è radicata nel tessuto sociale, piaccia o non piaccia. Può pure non piacere, ma perché allora non dirlo apertamente? Vannacci, invece, apertamente non parla mai: “non volevo dire questo”, “mai detto questo”, “è stata data un’interpretazione non corretta”, “sono stato travisato” e tutto così. Non si scopre. Dissimula. Fa lo gnorri, il pesce in barile, la casta verginella. Non esattamente quel che si dice un coraggio da leoni. Se è una tattica da 36 stratagemmi (“nascondi la spada dietro il sorriso”), certo confligge con l’aspettativa delle centinaia di migliaia di suoi lettori ed elettori, gente di destra senza infingimenti, che se pensa che uno non è normale, pensa proprio che non è normale, e non si nasconde dietro un ditino da accertatore catastale di fenomeni sociologici.
Obiettivamente, Calenda vinceva facile. Vannacci ha una certa quale abilità nel non argomentare, limitandosi a ripetere il disco rotto delle sue apparenti constatazioni. Talché il primo, spazientito, se n’è uscito con una frase non scontatissima di cui gli va dato merito: “C’è anche il diritto a essere razzista, in una democrazia liberale, purché non inciti all’odio”. A parte la precisazione sull’odio, riferita alla legge Mancino che tanto liberal-democratica non è, configurando un reato d’opinione che di liberale, e soprattutto di democratico, non ha niente, sia lode per l’elogio della libertà di idee, comprese le più detestabili. Un po’ meno lodevole quando, occupandosi della valutazione fatta dal generale su Mussolini “statista”, a Calenda è scappata la solita bollatura di chi a propria volta non ha argomenti: “Questo uomo di Stato”, ha detto in faccia a Vannacci, “ha fatto determinate cose che lei non è che non riesce a dire perché non ha un giudizio, non le riesce a dire perché lei non vuole dire quello che è, e cioè 'io so' fascista'". Ci permettiamo di dissentire: sicuramente ci saranno fascisti, o sedicenti tali, nella schiera di fan del possibile futuro capolista della Lega alle europee, ma Vannacci non è fascista, è molto peggio: è come Calenda, è un liberale qualsiasi. Con “liberale” non intendiamo un seguace di Croce o Einaudi ma chiunque pensi, come pensa anche il generale, che il nostro modello di valori, economico e sociale sia il migliore, superiore, definitivo. Totalitario. Tanto è vero che il valoroso guerriero non osa criticare né le discutibili scelte dell’Alleanza Atlantica (e vorremmo vedere, avendola servita in uniforme), né tanto meno il sistema etico occidentale, che di ogni cosa fa una merce con il suo prezzo (per poi indignarsi, il moralista, se l’immaginario è colonizzato da minoranze: per forza, l’industria culturale di massa ci ricava i dindi, dall’ingigantire a bella posta nicchie di mercato).
Dallo scontro fra due vuoti, ieri sera, non ne è uscito un pieno. Non sappiamo se Vannacci abbia uno straccio di idea sulla guerra in Ucraina e sul genocidio palestinese, sulle politiche green dell’Unione Europea, sul governo Meloni, sulle recenti elezioni regionali e più in generale su un’Italia, a proposito di “patria” da lui tanto declamata, che sta svendendo la rete Tim al fondo americano Kkr, oltre a fare come al solito da reggicoda a Usa & C, per esempio contro gli Houthi, anziché ragionare un po’ di più in termini di interessi nazionali. Il sorrisetto che sfoggia di default sembra suggerire che anche lui sia già un arcitaliano perfettamente medio, un “paravento”, secondo l’azzeccata definizione di Calenda. Dice e non dice, ammicca e arretra, badando al suo particulare. Cioè a incassare, grazie alla pubblicità acquisita a suon di banalità creandosi una fama da reinvestire, magari, in politica, obiettivo strategico di ogni furbetto che si rispetti. “Non vogliono far parlare il generale Vannacci e il sottoscritto alla presentazione del suo libro a Vicenza”, si lagna Giuseppe Cruciani commentando le manifestazioni di sinistra, centri sociali, Anpi e Arcigay che, di per sé, non bloccheranno proprio nulla. “Non dovete rompere i c.... alla libera circolazione delle idee, Vannacci ed io parleremo!”. Parlino pure. Il problema è che per farle circolare, delle idee degne di essere chiamate tali, bisognerebbe prima averle.