“Stamo a mori’ e andamo in giro a salvà le balene. Ma chi se le incul* le balene?” Stamattina mi sono svegliato di cattivo umore. Sarà che dalle sette gli operai indiani che in genere nel weekend sostituiscono quelli bergamaschi nel cantiere che sta di fronte a casa mia, dove stanno tirando su un pretenzioso palazzo dal nome altisonante, che fa il verso al Bosco Verticale o roba comunque da archistar, hanno iniziato a sbattere e fare frastuono con frese e martelli. Sarà che ieri sera sempre sotto casa, sul lato che affaccia sulla piazza, un gruppo di persone, i soliti balordi che vi bivaccano da che fa un po’ caldo, hanno cominciato a prendersi a bottigliate, facendo esclamare a mio figlio grande, diciannove anni venerdì prossimo, giorno in cui terrà l’orale dell’esame di maturità, “La Milano di Beppe Sala”, e come dargli torto, sarà che complice un Europeo di calcio non esattamente avvincente mi ha indotto a vedere un film in tv, Un altro ferragosto di Paolo Virzì, bello e tutto, sia chiaro, ma con un grado di cupezza e disperazione che mi ha devastato psicologicamente, la frase delle balene è presa da lì. Battuta che però partiva prima, da qui: “La gente fa schifo apposta c’arriva addosso solo la merda. Pure il virus, la guerra, la crisi, ‘sti duemila gradi che fanno che fa che tra un po’ andamo a fuoco, ce l’ha mandati addosso nostro Signore Gesù Cristo per sterminarci tutti perché ci odia e c’ha ragione.” Una Emanuela Fanelli in stato di grazia - ma quando non è in stato di grazia, la Fanelli? - che impietosa, lacrime agli occhi, mi ha spiattellato in faccia una realtà forse un pelo più cinica e disperata di come l’avrei descritta io, “È finita. Avemo rovinato tutto perché facciamo cacare. Nessuno vuole bene a nessuno, a ognuno je frega solo delle cose sue. Dovemo mori’tutti e se lo meritamo. Dovemo mori’ tutti e pure male.” Un passaggio, che mi ha proiettato in un luogo dove, immagino, la colonna sonora sia un loop della Almost Blue di Elvis Costello & The Attractions, album Imperial Bedroom, come il libro di Bret Easton Ellis, però nella versione del 1987 di Chet Baker, di lì a breve mica a caso morto accartocciato su se stesso, e io che vorrei invece trovarmi con la testa infilatat dentro gli amplificatori della sala prove di Al Jorgunsen coi suoi Ministry, questa la rabbia che mi si muove dentro.
Insomma, la giornata non prometteva niente di buono. Alzarsi con uno che sega tubi a trenta metri dal tuo letto, rivolto a nord come dice il Feng Shui, ma il Feng Shui mica ti dice che poi il tipo che gestiva il parcheggio privato davanti il tuo condominio andrà in pensione vendendo il tutto a degli immobiliaristi, lì a sfruttare la bolla del mercato delle case a Milano, maledetti cinesi, uno che sega tubi a trenta metri dal tuo letto con a fianco uno che prende a martellate non so cosa, metaforicamente invece sì, inducendo anche tutta quella serie di sensi di colpa piccolo borghesi di chi si lamenta di chi, alle sette di sabato mattina, invece di stare a letto, è in piedi, a miliardi di chilometri da casa sua, a tagliare tubi e prendere a martellate Dio solo sa cosa, il privilegio, i diritti sociali, la lotta di classe, tutto sembrava voler contribuire a trasformare questo sabato in cui, almeno quello, miracolosamente non piove, in un sabato del cavolo, un compleanno dalle parti di Lecco nel primo pomeriggio a cui portare i miei figli gemelli a compiere un’opera pensata, direbbe la Fanelli, da un nostro Signore Gesù Cristo piuttosto indispettito nei miei confronti, mentre lo dico, giuro, c’è il rumore di un allarme che è impazzito e non smette di suonare da almeno dieci minuti.
Hai voglia, parlo dei miei sensi di colpa, e soprattutto della percezione del mio lavoro vista da fuori, hai voglia a dire che questo sabato sera si concluderà con il resto della mia famiglia che mangia la pinsa e poi si vede un film, suggerirei uno di quelli che neanche fanno ridere, tipo Alessandro Siani, ma almeno non rischiano di avvelenare loro il sangue, Virzì docet, il fatto che proprio mentre noi si vedeva il film, ieri sera, sui social e i giornali online si andava facendo un po’ più luce sulla rissa che ha visto protagonisti proprio il regista livornese con la sua ex moglie, Michela Ramazzotti, la figlia maggiore di lui, il trainer palestrato oggi compagno di lei, in una trattoria dell’Aventino, rissa durata quaranta minuti, piatti rotti, tavoli lanciati, carabinieri in loco e Ramazzotti portata al pronto soccorso in ambulanza, beh, a rendere il tutto ancora più reale, “Dovemo morì tutti e pure male”, hai voglia a dire che questo sabato sera si concluderà con il resto della famiglia a rilassarsi e con me, accompagnato da mia figlia Lucia, a proposito, mercoledì 26 esce il suo primo libro, per Diarkos, dedicato a Taylor Swift, a vedere i Negramaro a San Siro. Lo facessi, se io cioè nel pomeriggio alla festa di compleanno dalle parti di Lecco dove porterò i miei figli gemelli con mia moglie, in una bella villetta con piscina, molto virziniana, penso al film Il capitale umano, mi lamentassi di dover andare a lavorare di sabato sera, magari contando sul fatto che non tutti i presenti mi conoscono, buona parte sì, la festeggiata è una compagna di classe di mia figlia e con mio figlio ha fatto la scuola materna, praticamente saranno lì presenti tutti ragazzini e ragazzine e rispettivi genitori che conosco da anni, se io mi lamentassi di dover lavorare di sabato sera, aggiungendo poi che andrò per lavoro al concerto dei Negramaro a San Siro, presumibilmente seduto in tribuna stampa, accreditato per farlo. Ecco, sicuramente riceverei o risate di chi pensa io voglia fare una battuta simpatica, battuta che risulterebbe simpatica come quelle del Milanese Imbruttito, perché in genere la gente paga per andare ai concerti a cui io vado gratis, anzi, pagato per farlo, o che io sia vittima di quella sorta di rincoglioni*ento dovuto all’improvviso caldo, “sti duemila gradi che fanno che tra un po’ andamo a fuoco” della Fanelli, sempre quello.
In realtà sono di cattivo umore. Molto. E sicuramente questo clima di merda, a Milano piove tutte le settimane da gennaio, non mi aiuta. Come non mi aiuta, ma questo è un problema mio, il non venir percepito come uno che lavora mentre lavoro, io a fare qualcosa che per gli altri è hobby, andare ai concerti, o addirittura sogno, andare poi a salutare i cantanti che hanno tenuto un concerto. Questa lunga premessa, perché questa era una premessa, sta qui non per caso. Magari un po’ sì, non è che quando comincio a scrivere so esattamente quante parole poi andrò a usare, e vi dicessi che una volta finito un pezzo io mi metta qui a limare parola per parola, per arrivare a una determinata quantità prefissata mentirei, non lo facevo neanche quando scrivevo per i cartacei, lì mi mettevo direttamente a scrivere dentro gli impaginati il giorno di chiusura, figuriamoci oggi dove gli spazi sono volendo infiniti, e dove al più devi fare i conti con quelli che si occupano di Seo, che mi odieranno come Nostro Signore Gesù Cristo, ma senza la possibilità di scatenare virus, guerre e crisi climatiche, soffro io soffrite anche voi, e muti, questa lunga premessa per dire che quando poi, di sera, sono entrato a San Siro, arrivato scomodamente in loco in metropolitana, una coda fortunatamente non troppo lunga alla cassa accrediti, un paio di tramezzini in pancia laddove a casa mia mangeranno pinsa, non avevo grandi aspettative. O meglio, avevo grandi aspettative dal punto di vista musicale, perché sapevo che un concerto dei Negramaro non poteva che essere un grande concerto, ma nonostante la stima e anche l’affetto che mi lega a Giuliano, Andro e soci, pensavo che nulla, neanche loro, e neanche loro a San Siro, sarebbero riusciti a togliermi di dosso quel senso di nervoso, di rabbia, il rumore di una fresa, se si chiama così, che taglia un tubo alle sette di mattina mentre non posso neanche mandare a fanculo l’operaio indiano che nel weekend sostituisce il magut bergamasco, so quasi a memoria Vogliamo tutto di Nanni Balestrini e ho letto tutto Il Capitale quando non avevo ancora vent’anni, che cavolo.
Giorni fa parlavo con un caro amico, uno dei rari colleghi che stimo, dove per collega intendo un intellettuale, e mi diceva che il tempo del long form è finito. “Ce lo siamo inventati”, ha detto, salvo poi correggersi, “ma no, non ci siamo inventati niente. Lo abbiamo fatto e lo abbiamo fatto bene, ma i tempi sono cambiati, ora dobbiamo lavorare di sintesi.” “Dobbiamo passare agli haiku” ho risposto, pensando a quando, un paio di Sanremo fa, in effetti ho scritto pezzi sotto forma di haiku, tre righe in rima, in endecasillabi. Però, siccome io sento la cultura giapponese un filo distante da me, gli unici haiku che ho letto sono quelli di Jack Kerouac e Richard Brautigan, ma io non sono beatnik, e neanche alcolizzato, anzi, sono proprio straight edge come un Henry Rollins più bolso e meno tatuato, ecco, lo avrete capito, il tempo del long form è finito, ma come direbbe l’Armadillo a Zerocalcare, ne ll’ultimo frame di Tagliare lungo i bordi, “da adesso”. Anzi, da domani, ottomilaecento caratteri sono un po’ più di un haiku, e ancora non è neanche cominciato il concerto. Concerto, mica penserete che quello che avete letto fin qui sia davvero solo una premessa, vero?, che è stato esattamente la negazione del monologo della Fanelli in Un altro ferragosto, del carpentiere indiano che taglia tubi o di quello che prende a mazzate non so bene cosa, dei balordi che si tirano bottigliate in piazza, la polizia che arriva con le sirene spiegate, facendoli scappare, così domani si può riprendere punto e capo, Dio mio sto diventando davvero come loro, di tutte le rotture che la vita ci pone con costanza e dedizione ogni santo minuto davanti. Innanzitutto è stata una festa in musica, so che detta così sembra un comunicato stampa di quelli scritti da un ufficio di comunicazione che poi usa espressioni come “rilasciato” o “fuori ora”, una festa in musica che ha visto coinvolti gli spettatori presenti, e come direbbe la Fanelli sticazzi se lo stadio sia stato o non sia stato sold out. Chi c’era ha goduto di uno spettacolo spettacolare, questo è certo. Poi è stato un immenso esercizio di empatia, come se i ragazzi salentini capitanati da Giuliano Sangiorgi, perché che a capitanarli sia lui è evidente anche solo a gettare uno sguardo distratto sul palco, avessero a disposizione un qualche marchingegno in grado di accordare all’unisono le anime di tutti noi lì, sudati, coperti di autan, stanchi per il lavoro della settimana, eccetera eccetera. Un po’ come succedeva nei collegi femminili, ho letto da qualche parte, dove a un certo punto gli ormoni entravano in sintonia e tutte le ragazze si ritrovavano a avere le mestruazioni nello stesso momento, ecco, noi lì, a San Siro, ci siamo trovati a battere allo stesso tempo, parlo di cuori e parlo di piedi sul pavimento, e di mani, sanguinando anche insieme, ma questa è un immagine che, Dargen D’Amico a parte, credo nessuno troverà particolarmente esattamente poetica. Empatia debordante, perché per abbattere certe scorze dure serve stare sopra le righe, volendo anche esagerare.
Come a volte capita ai grandi quando si trovano di fronte a un pubblico importante, parlo di numeri, e Dio solo sa quanto poco mi interessino in genere i numeri, come a volte capita ai grandi quando si trovano di fronte a un pubblico importante, i Negramaro, oggi, a San Siro, hanno fatto arrivare a un cuore coperto di cicatrici come il mio anche quella porzione delle loro canzoni che, negli anni, ho poco apprezzato. Anzi, non ho apprezzato per niente, criticandole anche aspramente. Vorrei dire che il discorso, parlo della capacità unica di far arrivare anche canzoni che non siamo pronti a ricevere, vale pure per gli inediti, che però in scaletta stasera saltano, credo per le due ospitate impreviste, Congiunzione astrale e Lente quelle previste inizialmente, ma queste sono canzoni che mi convincono, come molto mi ha convinto Ricominciamo tutto, presentata all’ultimo Festival di Sanremo e qui proposta quasi subito, quarta in scaletta dopo l’ultimo singolo Luna piena, Sei tu la mia città e Il posto dei santi. Ora, senza che io vi stia qui a raccontare tutto, l’ho già fatto, a modo mio, vi basti sapere che i Negramaro, dal vivo, hanno ancora quel tiro che abbiamo scoperto in molti nel 2005, quando hanno fatto la loro fugace apparizione sul palco dell’Ariston di Sanremo, in gara a Sanremo Giovani con Mentre tutto scorre, in scaletta secondo nonché penultimo dei bis, dopo Meraviglioso e prima di Parlami d’amore, pronti di lì a poco a conquistare classifiche e cuori dei fan, un tiro pazzesco, elettrico e melodico al tempo stesso, comprensibilissimo perché Giuliano, che dei pezzi dei Negramaro è autore, stia ancora coi suoi vecchi soci, Andrea “Andro” Mariano alle tastiere, Emanuele “Lele” Spedicato alle chitarre, Ermanno Carlà al basso, Danilo Tasco alla batteria, Andrea “Pupillo” De Rocco alle macchine, insostituibili tutti, e vi basti sapere che le canzoni che vi immaginate ci siano ci sono quasi tutte, compresa Basta così, su disco con la presenza di Elisa, e anche a San Siro con la presenza di Elisa, poi presente anche a cantare la sua Ti vorrei sollevare, su disco eseguita con Giuliano, per una rara volta non autore del pezzo, e ancora Diamanti, con la voce registrata di Jovanotti, e infine Via le mani dagli occhi.
Il momento di Ti vorrei solllevare e Basta Così, questo l’ordine, solo le loro due voci e il pianoforte suonato da Giuliano, è stata la prova provata, ce ne fosse bisogno, che per riempire uno stadio di emozione basta il talento e l’arte, non servono certo i trucchi e i fuochi d’artificio, un vero concentrato di emozioni, e chissà quanto Elisa avrà pensato a quando l’anno prossimo, il 18 di giugno, toccherà a lei cantare qui, manca però, per dire, Londra brucia, e sì, ho molto amato Casa 69, come La finestra e Mentre tutto scorre, sono pur sempre un uomo di mezza età e considero questi tre lavori al pari, sempre per dire, della triologia d’oro di Dalla prima con un accenno di Canzone e poi con un accenno di Come è profondo il mare, giunto dopo Per uno come me e una dedica a tutti coloro che muoiono in mare, con tanto di invito a far tornare il mare un luogo di libertà e di vita, bravo Giuliano. E vi basti sapere che le canzoni che vi immaginate ci sono quasi tutte, da Nuvole e lenzuola a Estate, eseguita in una inedita coppia con Tananai, che poi si emoziona di fronte all’invito di intonare la sua Veleno, passando per Solo tre minuti, L’immenso, Senza fiato, dedicato a Dolores O’Riordan e via discorrendo, e che soprattutto, parlo per me, c’è Cade la pioggia, titolo che sembra l’apertura di cronaca milanese di un qualsiasi giorno del 2024, ma che ritengo una delle più belle canzoni italiane, e non, degli ultimi decenni, il passaggio dello special, prima che arrivi Jovanotti, oggi assente giustificato, giustificato per l’incidente che ha avuto mesi fa e per essere con Rick Rubin a cazzeggiare in Toscana, il passaggio dello special uno dei momenti musicali più alti di stasera e di sempre. A sentirlo cantare, a vederlo ballare, muoversi, emozionarsi e emozionare, la band a tenere su un suono che è un gioiello di tenacia e precisione, viene proprio da volergli bene, a Giuliano, e in effetti il pubblico gliene vuole tanto, si è visto, e io pure, oggi anche di più. E chiudo proprio parlando di Cade la pioggia: “Tu dimmi poi che senso ha ora piangere. Piangere addosso a me, che non so difendere questa mia brutta pelle, così sporca, tanto sporca, com’è sporca questa pioggia sporca”. Versi che si fanno lancinanti e dolenti, certo, ma cantati in coro da decine di migliaia di persone si elevano al grado quasi di preghiera, diventando sublimazione, mai come oggi mi sono sembrati indicazione di dove cercare la salvezza, “Sì, ma tu non difendermi adesso. Tu non difendermi, adesso. Tu non difendermi, piuttosto torna fango, sì, ma torna”. Perché, si sbagliava la Fanelli di Un altro ferragosto, alla fine ci salviamo, con la nostra brutta pelle ci salviamo, anche grazie alla musica, oggi quella dei Negramaro a San Siro.