Una delle mie perversioni degli ultimi anni è aspettare che tutti di notte dormano e sfruttare quei preziosi momenti in cui la casa è silenziosa, prima che il mio secondogenito ricominci a piangere, e guardare a raffica i reel dei tanti cuochi di Instagram che da anni ormai popolano i feed di milioni di amanti di cibo, di grassi saturi, di piatti della tradizione, di procrastinazione. Ce ne sono tanti e ognuno si è abilmente ritagliato il proprio spazio codificando la propria offerta di contenuti attraverso uno stile di ripresa peculiare, dei gesti e dei rituali preparatori unici che si ripetono in ogni ricetta e ovviamente dei tormentoni verbali reiterati in tutti i video. A me piace molto Andrea Mainardi, un supersayan bresciano che parte sempre con una ricetta detox ma poco dopo sente “le voci del frigorifero” e all’urlo di “Uattà” trasforma il piatto nel funerale di ogni dieta; poi c’è il romanissimo Ruben Bondì che cucina su un fornelletto in terrazzo classici capitolini aggiungendo la sua distintiva grattata di limone; c’è Bike Chef, un cuoco viaggiatore con l’aria spiritata che ama le contaminazioni; il geniale Uomo Senza Tonno chemescola linguaggi, ingredienti apparentemente antitetici e frigge qualunque cosa nella sua rubrica Detto Fritto. Ma se parliamo di trasversalità e di popolarità un solo nome svetta su tutti: è quello di Max Mariola, capello argenteo, fisico da triatleta, romano de Roma che grazie a un mix di indubbia preparazione tecnica (ha fatto un lungo apprendistato come chef in vari ristoranti e anche anni per il Gambero Rosso), spontaneità ruspante, ricette di comfort food calorico con quel pizzico di innovazione che non fa urlare alla blasfemia ha conquistato il cuore di 9 milioni di aficionados cumulati tra Tik Tok, Facebook e Instagram.
Max a pelle non mi fa impazzire, principalmente per il fatto che il suo stile comunicativo è un pò troppo basato sulla sinestesia tra cibo & amplesso: massaggia filetti come se palpasse le chiappe di una pornostar ungherese, mugola versi di piacere mentre impasta, bacia l’osso della tomahawk prima di bagnarla voluttuosamente nell’uovo e irrorarla di olio evo (“quello bono”, ci tiene a farci sempre sapere in ogni video). Questa cosa piace a tanti, a me meno ma son gusti, per carità. Lui è l’uomo che sussurrava al guanciale, mentre trasforma impeccabilmente ingredienti semplici in piatti che ti rendono in un cane di pavlov e contemporaneamente mostra i bicipiti gonfi e venosi (spesso sotto il grembiule non indossa la maglia). A suggellare il tutto il suo claim che diventa marchio di fabbrica: Max che ci invita ad ascoltare il “sound of love”, il suono della pasta quando viene mantecata alla fine della ricetta. Un fatto è innegabile: Mariola è chiaramente destinato a cose più grandi di reel da sessanta secondi. Tra i commentatori si leggono sempre più stranieri, i follower e gli showcooking aumentano, esce l’immancabile ricettario, Max è una gigante rossa in procinto di diventare una stella della ristorazione. Infatti intorno alla fine del 2023 arriva l’annunciaziò: Mariola apre il suo primo ristorante. Non nella sua amata Roma bensì nel tempio del fatturato, l’unica città in grado di trasformare quella chiavica del pokè in una cosa figa, Milano. La location, zona Brera, lascia presagire il fatto che difficilmente si tratterà di una trattoria col vino sfuso e la tovaglia a quadri. E infatti quando apre, “Max Mariola” conferma le aspettative: cucina romana occasionalmente rivisitata attenta alla stagionalità, ambiente informal chic da fuori salone con bar e cocktail. Dopo l’inaugurazione alla quale partecipa la creme dei creators digitali italiani e il boom di prenotazioni (è possibile riservare un tavolo soltanto online ci sono attese di mesi) iniziano i primi problemi. Il Gambero Rosso definisce il suo ristorante omonimo “un flop”, forse esagerando un pò (Max e il Gambero Rosso non si sono lasciati benissimo e adesso - dice Max - i suoi vecchi colleghi si comportano come una ex rancorosa che pretende gli alimenti). Qualcun altro sottolinea il crescente numero di recensioni negative su Tripadvisor (ma le positive sono comunque sensibilmente di più).
Insomma, tutto nella norma, almeno fino a quando Max qualche giorno fa non rilascia al Corriere della sera un’intervista in cui si difende dall’accusa di avere prezzi troppo cari e dice una frase che mi ha fatto passare l’appetito che mi era venuto gradando i suoi video: “La mia carbonara a 28 euro? Per Milano è poco. L’italia deve alzare i prezzi del cibo”. Non ce la faccio, devo sfogarmi. Cominciamo da quel “per Milano è poco”. Forse Max è rimasto fermo ai tempi dell’Expo, quando a un certo punto sembrava che qualunque cosa figa dovesse succedere capitava a Milano e a New York ci andavano solo vecchi boomer per farsi la foto a Dumbo o mangiare il pastrami da Katz. Ahimè sono passati quasi 10 anni da allora per la città sono Katz amari. Secondo un sondaggio di Adesso! – movimento di proposta e progetto di media activism lanciato da Tomaso Greco, editore della casa editrice Bookabook e ripreso da Repubblica in Ottobre - Il 62% dei residenti a Milano di età compresa tra i 20 e i 40 anni spende per vivere più di quanto guadagna ed è costretto a far ricorso ai propri risparmi o a chiedere un prestito quando si trova a dover gestire un piccolo imprevisto. È vero, Milano è la città con gli stipendi più alti d’italia ma questo dato si scontra in un frontale in autostrada con l’inflazione e l’incremento del costo della vita che ha raggiunto negli ultimi 3 anni livelli parossistici. Secondo la graduatoria stilata dal sito Numbeo basata su milioni di dati forniti dai cittadini di tutto il mondo, Milano è la città in cui la capacità d’acquisto di beni e servizi calcolata in base allo stipendio medio è la più bassa d’Italia. È anche in coda alla classifica delle città europee, dopo Bucarest, giusto a pari merito con Sarajevo. Quindi 28 euro per Milano sono pochi? No. Anche perchè, a leggere la recente recensione di MOW non son più 28 euro ma 30-35 euro. Max nell’intervista specifica: “Non è solo un piatto, è uno show”. E qui devo dire che io e lo chef romano abbiamo forse diversa concezione di show, perchè per 30-35 euro io mi aspetto che gli spaghetti me li mantechino Tinti e Rapone per mezzo’ora al tavolo, non (con tutto il rispetto) Mariola per 2 minuti (a volte non è nemmeno lui perchè giustamente impegnato in qualche evento in giro per lo stivale, ci sta). Ma questo magari sono io.
Max continua nella propria apologia dichiarando che “in zona è un prezzo basso: bisogna pensare a quanto costano qui un cameriere, l’affitto…”. Sicuramente il suo personale (efficiente, competente, veloce, si legge ovunque) e una location nuova fiammante in quella zona sono quanto di più lontani dall’idea di economico. Peccato che in 7/8 ristoranti della zona, alcuni molto vicini al suo, il prezzo medio di una carbonara si attesti intorno ai 18/20 euro (in un caso, Maccheroni che si sottotitola “la Carbonara N.1 di Milano”, si arriva ai 22 euro). Quindi no, il tuo non è un prezzo basso per la zona Max. Ma il capolavoro, quello che mi ha fatto venire una fitta intercostale che mi ha lasciato senza fiato per 24 ore, è questo passaggio, sempre su Corrierone: “[L’Italia] dovrebbe puntare a diventare l’alta moda del cibo: mantenere le produzioni e le quantità attuali, ma alzando i prezzi. […] Non si deve comprare per forza il salmone, va bene lo sgombro. E non bisogna comprare gli asparagi a dicembre, ma il broccolo. A Natale trovi le ciliegie del Cile: costano chissà quanto e non sono sostenibili! A chi le compra, e magari ha pure la borsa della spesa ecologica, vorrei dare le botte sulle mani”. Il primo riflesso incondizionato che ho avuto è stato pensare: “A Max, ma che caz*o stai addì?”. Ora se la tua cotoletta sta a 60 euro è per quelli che comprano le ciliegie a dicembre? Ma come l’alta moda del cibo? Da quando un carciofo italiano dovrebbe essere come un paio di orecchini di Chanel? Ma perchè? Ma il cibo non era qualcosa di democratico, di trasversale, di popolare, di identitario? Ha senso parlare di classismo gastronomico, dire che le persone comuni devono scegliere qualcos’altro rispetto alla proposta del tuo ristorante quando hai costruito la sua immagine pubblica come quella di un bonario cuoco de ‘core, che fa i piatti della tradizione, che va al mercato rionale a ridare lustro a tagli di carne umili come il diaframma o vegetali poveri come la cicoria selvatica? Forse la natura di tutte queste polemiche (e di questo risibile articolo) è proprio questo circuito nella narrazione mariolesca, in cui il pop dell’influencer si scontra contro l’esclusivismo del ristoratore. Non ho dubbi che nel suo ristorante si mangi benissimo (anche se il tempo di permanenza al tavolo è di un’ora e 45 minuti, pochi per quello che costa secondo me) e come ho già detto considero Max un capacissimo cuoco, a cui auguro ancora più fortuna e felicità. Il locale è il suo, può fare i prezzi che vuole. L’unico appunto che (dall’alto di un caz*o, il mio) mi sentirei di fare a Mariolone nostro è quello di ponderare le proprie dichiarazioni, specie quelle che rafforzano lo stereotipo ormai consunto e sfilacciato di Milano come capitale del lusso e dello sfarzo. Perchè oltre e quella della moda e del design nell’anno di un milanese ci sono altre 51 settimane, perché non tutti i residenti sono designer in Total look Balenciaga, consulenti finanziari in Maserati o trapper in Lambo, e perchè per la maggiorparte del tempo quello che sentono qui non è The Sound Of Love, ma quello delle bestemmie. Solo che magari lui stando in Moscova non le sente.