Ma davvero tocca a una donna di 62 anni provare a liberarci dalla schiavitù di reggaeton et similia? Oddio, non che Katie Puckrik abbia mai avuto esattamente questo, in mente, ma il suo ammirevole tentativo di diffondere il verbo yacht-rock potrebbe davvero sortire effetti imprevisti e straordinari. Americana, Puckrik parte forte in Inghilterra, negli anni ’90, presentando “The word” su Channel 4 e “The Sunday show” su BBC Two. Una buona partenza, sebbene il suo nome non venga immediatamente accostato a quello di una Julie Burchill (NME, The Face) o di una Anne Nightingale (la radiofonia al femminile in casa BBC). Non siamo a quel livello di stima e fama. Tuttavia Puckrik si trasforma piano piano in una scommessa già vinta per chiunque investa su di lei. Nel 1999 pubblica un’autobiografia, “Shooting from the lip”, la cui struttura prevede che siano le canzoni a dettare i tempi (e i temi, in parte) della narrazione. Dopo anni di varie collaborazioni che tengono il suo nome un po’ nell’ombra, Puckrik decide però di associare il suo sorriso al filone yacht-rock. E lì scatta una magia. Perché lo yacht-rock è un segreto che periodicamente necessita di essere svelato. Non è un autentico mistero da più di 40 anni, cioè da quando è stato seriamente considerato (e studiato) come sottogenere (un’evoluzione del più generico “soft-rock”). Tuttavia, le generazioni si succedono, il passato oggi rischia di essere più un impiccio che una risorsa a cui attingere, e allora qualcuno deve ri-svelare i segreti già precedentemente svelati…
Il circo pop offre, mastica e trita di tutto a ritmi così elevati che, al tramonto degli anni ’80, lo yacht-rock scompare quasi dai radar mainstream, andandosi a rannicchiare in un campetto per ossessivi aficionados che poco ha avuto a che fare con la sua natura spudoratamente pop. E sì, perché l’etichetta yacht-rock potrà senza dubbio insospettire, ma per circa 15 anni sotto tale ombrello si sono rifugiati alcuni successi letteralmente colossali, brani che hanno colonizzato i palinsesti radiofonici per anni a venire: “Ride like the wind” di Christopher Cross, “This is it” di Kenny Loggins, “Lowdown” di Bozz Scaggs, “Africa” dei Toto, “Fly like an eagle” della Steve Miller Band. Tutti artisti inclusi nel box di 4 cd (o doppio vinile) intitolato “Kate Puckrik presents A yacht rock odyssey” (uscita, 30 agosto), una mappa sonora che torna ad occuparsi (si va a folate) di un sottogenere che con la sua estetica leccata, cose da cartoline esotiche provenienti da qualche atollo per assoluti priviliegiati, ha fatto a lungo sognare il pubblico occidentale. Yacht-rock che esplode, fragoroso, nella seconda metà degli anni ’70 per poi irrompere, potente e virale, negli anni ’80 (pensate che persino un gruppo sofisticato come gli Steely Dan furono accusati, nel 1980, di essersi eccessivamente “yacht-izzati” con “Gaucho”). E che oggi torna ad essere recuperato, stavolta da colei che se ne era occupata, nel 2018, sulla BBC, con “I can go for that: the smooth world of yacht-rock”, documentario in due parti che fece registrare un sorprendente successo.
Forse perché l’immaginario yacht, associato a brani impeccabilmente concepiti e divinamente arrangiati, spesso baciati da melodie cristalline quanto i mari su cui si affacciano, è destinato a sopravvivere a ogni mutamento tecnologico-politico. Ah, perché “yacht”? Potrebbe risponderci Mauro Ronconi, giornalista, scrittore e critico musicale fra i più esperti nel settore. Nel suo “Canzoni per un mondo senza Beatles. Dai Santana ai Coldplay, il meglio dopo l'indispensabile” (Arcana, 2022) compaiono parecchie gemme “yacht”. In copertina, poi, c’è Ronconi medesimo nei panni di Donald Fagen formato “The nightfly”. Fagen non è un artista “yacht” ma, come accennato prima, anche gli ultimi (prima del ritorno nel 2000) Steely Dan evocarono lo stile. Quindi “yacht-rock” perché i brani sono spesso caratterizzati da un’ambientazione “fissa” particolarmente affascinante e persuasiva: mare, amori, brezze, libertà. Sublime disimpegno cesellato da strepitosi session-men e da tutti gli artisti che Puckrik passa in rassegna nella sua imminente, elefantiaca, compilation. Quanto un’operazione simile, figlia di un’altra ardita operazione (il documentario del 2018 andato in onda sulla BBC), possa rimettere in circolo, in epoca di tensioni belliche e crisi economiche, il verbo yacht è tutto da vedere. Di certo, questo sussulto, l’ennesimo di un sottogenere che rifiuta la morte forse perché la morte è un tema che non ha mai contemplato, fa sognare tutti gli over-40 massacrati dalla povertà creativa di suoni soprattutto estivi come il famigerato reggaeton. Che la più improbabile delle sfide abbia inizio, allora.