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In memoria di Gian Maurizio Fercioni, pioniere del tatuaggio e anticonformista vero. Ecco il nostro tributo a un gigante a un mese dalla sua morte

  • di Giovanni Gastel Junior Giovanni Gastel Junior

29 dicembre 2025

In memoria di Gian Maurizio Fercioni, pioniere del tatuaggio e anticonformista vero. Ecco il nostro tributo a un gigante a un mese dalla sua scomparsa
Gian Maurizio Fercioni se n’è andato e il mondo dell’arte non sarà mai più lo stesso. È stato pioniere del tatuaggio, anticonformista, sarto, saggio. Noi abbiamo aspettato un mese prima di scriverne, perché per un suo ritratto, anche solo parziale, richiedeva tempo. Ecco il nostro ricordo di un gigante

di Giovanni Gastel Junior Giovanni Gastel Junior

Riparati all'ombra del gigante guardando l’oceano sconfinato, ci sono persone che sembrano tornare nella nostra vita, o forse è il caso a farci tornare da loro. Sono comparizioni che non possiamo dimenticare: quando incrociate, le ricordiamo. Con ammirazione e stupore, e continue domande che vorremmo porre. Ho fatto la conoscenza di Gian Maurizio quando, diciottenne, decisi di farmi tatuare da lui. Non conoscevo il mondo dei tatuaggi, e per la verità anche il resto dei cosmi non è che li possedessi tutti. Forse, decisi per i segni sotto la pelle proprio per contrastare quella sensazione giovanile di impermanenza, di fragilità di scheletro, di adattamenti della muscolatura forzati verso le prime inevitabili necessità sociali del vivere. Avrei così avuto qualcosa che certificasse il mio desiderio di essere catalogato “fuori dalle regole”. Un paradosso. Il tatuaggio è una sorta di confessione: se chi opera non è all'altezza, è un'introspezione bruciata, un'occasione sprecata. In terza liceo tenni una piccola lezione in classe, raccogliendo e raccontando ai compagni le nozioni apprese da uno dei tanti libri scritti dalla sua stupenda moglie, Luisa. Dal momento in cui lo vidi per il mio tatuaggio, Fercioni ritornava sempre in mente, tra un sogno lunare e un pensiero soleggiato, tra l'idea di un progetto e il tentativo di realizzarlo. Qualsiasi ideazione che avesse attinenza coi tatuaggi, avrei voluto fosse supervisionata da lui. In seguito ho pensato a Gian Maurizio mentre proponevo a Virgin Radio un format o quando pensavo a un racconto televisivo sui tatuaggi con un'amica scrittrice. Non riuscii a creare nulla, ma la possibilità di un suo coinvolgimento mi dava forza. Se i primi due tattoo, fatti a 15 e 16 anni, li avevo affidati a un personaggio nefasto e senza fascino, per il terzo avrei scelto un professionista, un gigante.

Gian Maurizio Fercioni, tatuatore
Gian Maurizio Fercioni, tatuatore

Avevo selezionato da un Dylan Dog un’inquadratura in cui appariva la Gorgone. Di lei mi piacevano i serpenti e il ghigno: malefico e attraente. Lo raggiunsi in Brera, la zona in cui aveva sempre vissuto, studiato e lavorato. Il suo studio era arroccato nella parte più alta di un appartamento, si chiamava Queequeg ed era un luogo pieno di fascino. Sembrava di stare nella cabina di una barca a vela: tutto di legno, le pareti adornate di flash – i disegni su carta che si possono scegliere come modelli - e di grandi tavole con i disegni a colori suoi e di altri grandi maestri. Quelle figure rappresentavano sia la storicità sia la modernità di un mondo che appariva ancora embrionale, poco conosciuto, quasi legato a lombrosiane verità e che stava morendo, o trasformandosi. L'ultima decade del Novecento racchiudeva i segreti del mondo analogico. Qualche anno dopo, il mondo avrebbe sentito la rivoluzione del web, le nozioni avrebbero corso tra i luoghi dove era tenuto il sapere e le case di tutti. Non credo di dover spiegare a nessuno che per recuperare uno scritto o un disegno non bastava digitarne il nome su un motore di ricerca; la memoria personale andava davvero ad arricchire la conoscenza collettiva, e viceversa; pagina dopo pagina, fotocopia dopo fotocopia, con prestiti di libri e di disegni originali.

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Fercioni nel suo studio

Per questa ragione, i primi tatuatori, italiani (ne cito solo alcuni), da Maurizio Fiorini a Mino Spadacini a Gippi Rondinella, erano sperimentatori (prima che possessori) di conoscenze artistiche fondamentali, che poi applicavano sulla pelle attraverso tecniche via via migliorate grazie al passaparola e agli errori (spesso fatti su prodi volontari o su se stessi), infine condivise tramite fotografie, dando vita così al primo vero giardino del tatuaggio moderno. La prima tattoo convention è stata organizzata a Bologna nel 1993, spinta anche dalle prime riviste del settore come Tatto Revue (1985) e poi Tatto Life, nata nel ‘93 grazie a Miki Vialetto, responsabile della stessa convention per tanti anni. Tralascio volutamente il medioevo del tatuaggio, che comprende una preistoria di marcatori, da Loreto andando a ritroso fino alle mummie tatuate e conservate dai ghiacci per millenni. Fino alla fine del Novecento, le prime figure tatuate in Italia erano per lo più carcerati, soldati, marinai. Quei segni appartenevano a gruppi isolati, all'underground vero, raccontavano codici visivi sconosciuti, avevano il fascino del vietato, del nascosto, dell'occulto, anche del fregarsene di mostrare cicatrici e segni della vita. Davano la sensazione di un qualche coraggio inusuale, di una irrequietezza pacata solo nella serenità del mostrare simboli proibiti, nati in un microcosmo ma destinati a diventare un alfabeto a sé stante, e poi un esercizio d'arte vero e proprio. Gian Maurizio lavorava come scenografo ed è stato uno dei fondatori del teatro Parenti.

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Se guardiamo alle specificità del suo segno di tatuatore, ritroviamo lo stesso stile dei bozzetti che preparava quando studiava e progettava i costumi teatrali e le scenografie: un lavoro lunghissimo e duraturo, importante, magnifico. Quei disegni (li potete vedere sul suo sito) contenevano la sua sintetica leggerezza, tratteggiata e svolazzante, e la completezza dell'informazione utile al lavoro, mantenendo l'interezza del significato con pochi tratti. Ma Fercioni aveva soprattutto viaggiato: aveva visitato i porti, aveva imparato a conoscere - e poi subito amato - quei contesti di persone vere e schiette, che non avevano nulla da perdere, irripetibili come i viaggi a vela fino alla nascita dei motori. Aveva appreso conoscenze tra una birra e l'altra, che si trovasse a Lione dove lavorava, o nei parlour storici come quello di Hoffman, in cui imparò il mestiere. Ricordo la mia domanda ingenua, la prima volta da Gian Maurizio: “Perchè Queequeg?”, “Come? Non conosci Moby Dick?”. “Conosco la storia”, balbettai. “E fai il classico, eh?! Leggilo! Non si può non conoscere Melville”. Poi prese a replicare sullo stencil il disegno che gli avevo portato, aiutato da un assistente che aveva il volto fiero, i modi schietti ma meno bruschi di Fercioni, le basette lunghe che scendevano come lacrime inevitabili, giunte, inarrestabili, per qualche malinconia inconoscibile fino al mento. Avevo visto, sotto le maniche della camicia bianca a righe rosse, i tatuaggi di Fercioni, e sciocco, mi chiedevo come mai un tatuatore avesse disegni così vecchi, le linee andate insieme, confuse, non più neri ma diventati bluastri. Ora so che erano stati tracciati dai pionieri, da lui stesso; ora so che non c'erano le tecniche e i materiali con cui oggi è possibile scegliere più perfettamente lo spessore di una linea o la sfumatura di un colore desiderata.

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Un post condiviso da Fercioni Tattoo Studio e Museo (@gmfercioni_tattoostudio)

Mi trattava da giovane uomo, non da ragazzino, e questo mi piacque moltissimo. Potevi anche scegliere il tatuaggio sul posto, nella tradizione dei tattoo shop novecenteschi: decidevi di farlo e andavi a sceglierlo come si fa in un negozio per un abito. Gian Maurizio era un sarto raffinato e colto, e come tutti i sarti, aveva il suo stile. Quasi come uno psicologo, aveva la capacità di capire le persone in poche battute, poi attuava la traslazione che gli consentiva di raggiungere le profondità dell'anima e di tracciare simboli e segni che appartenessero al tuo immaginario personale ma che aderissero anche a una forma artistica di senso. Quell'immagine scelta dal tatuando, pur se volatile e temporanea, era fissata per sempre appena sotto l'epidermide. I tatuatori erano depositari di codici segreti, dovevano conoscere i miti antichi e le nuove correnti artistiche, perfino le mode: per schivarle o per infilzarle con ironia, che era una delle caratteristiche di Gian Maurizio. Come un ragazzino quando non crede al primo pugno preso e quasi chiede il secondo, parlai ancora: “È vero che avere tatuaggi pari porta sfortuna?”. Ma invece che un secondo schiaffo, mi accarezzò: “Non proprio. Immagina dei viaggi per mari lontani, avventurosi e difficili in epoche senza motori. Pensa al marinaio che si tatua la prima volta nel porto di casa prima di partire, la seconda in viaggio, lontano, e la terza di nuovo a casa. Per questo il pari un tempo significava lontano da casa, nei perigli e così via”. “Wow!” Pensai. E anche “non vedo l'ora di dirlo agli amici”. “Ed è vero che non andranno mai via?”. “Il corpo espelle ciò che non è proprio dell'organismo, come gli inchiostri. Più è forte e giovane il corpo e meglio proverà a buttar fuori da sé le molecole di colore, per questo col tempo il tatuaggio sbiadisce e perde definizione”.

Gian Maurizio Fercioni, pioniere del tatuaggio
Gian Maurizio Fercioni, pioniere del tatuaggio

Gli feci tutta una serie di domande a cui rispose, cortese, a volte piccato dalla mia ingenuità, ma mai riservandomi il silenzio violento degli arroganti: aveva sempre parole, per me e per tutti, perfino dure, ma sempre oneste. Anche l'ultima visita, qualche mese fa, mi rimane dentro. Gian Maurizio era un po' opacizzato dalla stanchezza, ma sempre bellissimo, il bastone impugnato senza mai debolezza, la voce salda, rimasta ferrea nonostante la ruggine, sopraggiunta dalle piogge delle epoche vissute, gli avesse appesantito il corpo. Non aveva per nulla ceduto alla bruttezza e al compromesso della comodità: né tute né pantofole. Non aveva abbandonato quello stile elegante e spiritoso con cui lavorava e secondo cui viveva. La cravatta e le bretelle, la pipa sempre in bocca, e una voce cristallina. Quando diciamo “è un dandy” ci riferiamo a quell'eleganza che ha in sé un pizzico di ironia, ma dimentichiamo quasi sempre che nella definizione sta un altro concetto altrettanto fondamentale: l'anticonformismo. Non ostentato ma proposto, mai dettato da altre regole ma vissuto perché non se ne può fare a meno. Queste due caratteristiche sono, prima di tutto, un modo di pensare sé stessi e l'universo. Fercioni era affascinante, e del tatuaggio incarnava sia lo spirito pionieristico (parlo del tatuaggio commerciale, perché la pratica di esso è antichissima) sia quello moderno. Ma aveva in sé anche il futuro, quello di oggi: in cui - una volta acquisita la perfezione esecutiva e formale - si affianca uno stile proprio che sia unico e riconoscibile. Forse Gian Maurizio non aveva la tecnica di un Gianluca Francione (Seppe) o di un Pittakkm, ma aveva da tempo creato un suo alfabeto, differenziandosi dai primissimi tatuatori commerciali che replicavano (ed era già straordinario!) - stencil dopo stencil - i simboli della propria scuola. Fino agli anni Novanta, quel mondo di idee che si rinnovavano, di simboli ora diventati religione ora dissacrati per costituirne una nuova, per ottenere la cultura necessaria per esercitare la professione, bisognava viaggiare, leggere, ricordare, fotografare, immaginare, apprendere, memorizzare, decostruire, inventare, innovare, distruggere e ricostruire. Oggi non è più così, e va benissimo. Ogni epoca ha i suoi dogmi, i suoi istituti. Ma deve avere anche i relativi nemici, i dissidenti, i detrattori: senza di essi, ogni cultura è morta, e quindi inservibile.

Fercioni nel suo studio
Fercioni nel suo studio Tatto Life

Ora gli vorrei dire: “L’ho letto, Gian Maurizio! L'ho letto, Melville. L’ho letto in una notte sola, quando ne studiavo la trasposizione filmica, in Canada. L’ho letto, Gian Maurizio. Avevi ragione: è un capolavoro! E ho capito chi è Queequeg! Era il primo personaggio tatuato conosciuto da Ismaele! Un marinaio Maori”. Ma con le grandi personalità si ha sempre l’impressione di arrivare tardi, quasi di essere in difetto, di arrancare, per cercarne il plauso. Quasi sempre, siamo davvero in ritardo, ma non è colpa nostra, non è colpa di nessuno. Sono loro, a essere in anticipo, a precorrere, a ispirare senza guardare indietro, senza mai dover verificare che le loro idee e le loro luci abbiano avuto una qualche eco nelle anime degli altri. I maestri dettano, propongono tesi, lanciano sfide. Sta a noi raccogliere il guanto, farle crescere o confutarle, distruggerle, perfino. E non vogliono essere chiamati “maestri”. Fercioni era un maestro, ed era divisivo. Perfino io, commentando i suoi lavori, ho detto: “tecnicamente è molto sopravvalutato!”. Poi ho capito altre cose, anche del mio giudizio affrettato e supponente su di lui. Nel mondo dell’arte e della creatività applicata non esiste il concetto di perfezione: esiste l'ambizione alla propria perfezione. È diverso, completamente diverso. Se si va in un'osteria specializzata in zuppe, non pretenderemo una spaghettata all'amatriciana perfetta. Ciò che andiamo cercando, in quel locale, è la zuppa della casa: riconoscibile e autentica. Se ci piacerà, torneremo. Ma quel brodo, lo fanno solo lì. Gian Maurizio aveva uno stile suo e suoi disegni identificativi: le lische di pesce (non c'è più nulla da mangiare! Abbiam finito tutto, restano teste e lische!) o i velieri sognanti di tramonti lontani. Il sito di Gian Maurizio Fercioni è in costruzione. Io non mi intendo di linguaggi digitali, per cui la mia ignoranza è dichiarata. Ma se mi inoltro e passo le barriere delle cose scritte, vi è lo spazio lasciato, immagino, per essere successivamente riempito con i contenuti e per le nuove parole. Alla sezione “biografia”, sotto il testo che ne racconta in breve (brevissimo, rispetto al suo vivere!) la vita, e un video di YouTube, se si va verso il basso dello schermo, troveremo un immenso blu, come se la sua vita trovasse una continuità quasi infinita in un blu marino, in quello spazio colorato d'oceano e di tramonti immaginati, sono certo che un veliero invisibile stia conducendo il gigante verso le ultime tappe. È un oceano sconfinato di bellezza e di stupore. Il mare. Questo è ciò a cui penso, quando penso a Fercioni. Sul web ci sono tante interviste e una infinità di fotografie. Vi chiedo questo: andate a guardare com'era bello e ad ascoltare i suoi racconti. Gian Maurizio era un cosmo intero che continuava a intersecarsi con altri universi. Questo racconto è un piccolo tributo a lui – e a Luisa e a Olivia – scritto di giorno, sotto un'ombreggiatura che non privava mai di luce, ma che ci riparava dai bagliori nocivi di esso: l'ombra protettiva di un gigante.

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