C’è musica oltre Sanremo! Abbiamo incontrato Francesco Cavestri, giovane promessa del Jazz italiano classe 2003, che vanta già collaborazioni con i massimi esponenti del genere come Paolo Fresu, ma che adesso vuole farsi spazio nel mondo del pop. A fine gennaio è uscito il brano “Entropia” con Willie Peyote, nella nostra intervista ci racconta del loro incontro, dello stato di salute del jazz e della possibilità di collaborare con…
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Ciao Francesco, ti ricordi il momento in cui c'è stato il colpo di fulmine con il jazz?
Ero alle scuole medie musicali a Bologna e suonavo già il pianoforte da quando avevo 4 anni, quando la mia professoressa di pianoforte mi indirizzò all'ascolto di “Kind of Blue” di Miles Davis, l'album più venduto della storia del jazz. Da lì ho iniziato, poi mi sono laureato al conservatorio, ho studiato in America al Berklee College of Music di Boston e alla New School di New York, dove ho potuto approfondire tutti quei linguaggi, che non sono strettamente legati al jazz ma ci dialogano molto.
Quindi la musica la respiravi già in famiglia?
In realtà non ho genitori musicisti, certo è stato un avvicinamento materno al pianoforte, perché mi iscrisse mia madre a quattro anni. In casa mia si respirava molto rock, Guns N'Roses, Led Zeppelin, queste sonorità qua, abbastanza comuni nei genitori di un ragazzo della Gen-Z. Cominciai a improvvisare al pianoforte, prendendo quei brani come “Stairway to Heaven” e suonandoci sopra. La mia professoressa di pianoforte, quella che mi consigliò Kind of Blue, vide che avevo questa vena improvvisativa molto forte e mi disse perché non ti iscrivi a jazz?
Nel pezzo “Entropia” con Willie Peyote canti per la prima volta, come nasce l'esigenza di metterci anche la voce nella tua musica?
Da un po' di anni studio canto con un maestro di canto lirico, le basi di quella formazione lì possono applicarsi benissimo anche ad altri generi, anche più contemporanei, come appunto questo brano qui che ha delle sonorità molto pop, molto cantabili con delle sfumature R&B e ovviamente jazz. La voglia di mettere anche la voce al servizio della musica mi è venuta perché è una cosa che faccio sempre più spesso nei concerti. L'opportunità di collaborare con un personaggio come Willie mi ha fatto capire che poteva essere il momento giusto.
Anche questa scelta è frutto dell’improvvisazione allora?
Esatto, sì. Sono un grande fan dell'improvvisazione. Del jazz mi affascinò subito questa estrema libertà, che però si acquisisce dopo tanto studio e dedizione, perché per poter essere veramente liberi uno deve potersi limitare, porre dei paletti entro cui poi muoversi. Lo spiega molto bene Italo Calvino in “Lezioni Americane”, nel capitolo della molteplicità. È quasi un controsenso, però essere liberi non significa poter fare veramente quello che si vuole, ma avere la consapevolezza tale per cui si ha chiaro in testa lo schema da seguire e poi entro quello schema si divaga e si diverge il più possibile.
Con Willie, com’è nato invece l'incontro?
L'ho conosciuto ad agosto 2023, ci trovavamo entrambi in Sardegna al Time in Jazz festival, di cui Paolo Fresu è direttore artistico. Lui mi aveva invitato con il mio trio per presentare il mio primo album, “Early 17” e Willie si trovava lì come ospite dei Savana Funk; quindi, ci siamo conosciuti e poi ci siamo incontrati al pranzo di Ferragosto, di fronte a un piatto tipico del luogo, che è la zuppa berchiddese. Gli chiesi, “ma cosa ci fai tu qui?”, mi rispose che era venuto perché l'Hip Hop, che è il suo genere di appartenenza, deve tantissimo delle sue origini al jazz. Questa consapevolezza ci ha fatto subito unire, poi siamo rimasti in contatto e il 31 ottobre del 2024 l’ho coinvolto come mio ospite a un concerto alla Triennale di Milano per il Festival Jazz di Milano, dove abbiamo presentato “Entropia”, il brano che abbiamo scritto insieme.
Secondo te questa ibridazione può aiutare a diffondere il jazz anche tra gli appassionati di altri generi?
Credo che sia l'unico modo in realtà, anzi voglio essere ancora più drastico, è l'unico modo per tenerlo in vita come genere, perché come ha detto Stefano Bollani, il rischio del jazz, che va assolutamente scongiurato, perché è contrario alla sua natura, è che diventi una musica da museo, come è diventata la musica classica. Viene eseguita nei teatri e basta, è tutto standardizzato, è tutto scritto, metodico, c'è una vera liturgia intorno. Il jazz è un genere che nasce dall'ibridazione, è meticcio fin dalla sua nascita e soprattutto fa dell'improvvisazione uno dei suoi tratti caratteristici. Quello che hanno fatti i grandi, da Miles Davis a John Coltrane, è stato cercare sempre nuove strade espressive e legare i nuovi linguaggi, dalla musica elettronica all'hip hop, alla musica jazz, chissà se anche l'intelligenza artificiale possa contribuire…
Tu fai anche divulgazione nelle scuole, quanta distanza noti tra gli studenti rispetto a questo genere?
C'è abbastanza distanza, soprattutto quando vai nelle scuole medie, nelle elementari, non ne parliamo, ma anche nei primi anni del liceo. C'è però da dire che neanche io alle medie ascoltavo il jazz, l'ho scoperto alla fine delle medie; quindi, c'è un percorso di consapevolezza che forse va fatto. Ai ragazzi mostro sempre una clip di Snoop Dogg, che a una cerimonia di premiazione in America ringrazia per aver inventato l'Hip Hop Herbie Hancock, che è stato il pianista di Miles Davis e tuttora è uno dei più influenti pianisti jazz al mondo. Quando cito Snoop Dogg loro si alzano i piedi e dicono, Snoop Dogg, lo conosco! Così associano a una cosa passata, quasi morta, che ascoltano i genitori magari, uno degli artisti che seguono. Creare questi ponti, non solo musicali, ma anche di racconti, può essere una cosa importante. Io ho fatto il percorso inverso invece.
In che senso?
Ho avuto quella fase in cui ero snob, cioè ascoltavo solo jazz, però poi vedevo gli artisti di jazz che consideravo dei giganti assoluti, come ad esempio Robert Glass. Lui è il pianista che si sente in tutte le tracce dell'album “To Pimp a Butterfly” di Kendrick Lamar, l'album che nel 2016 ha vinto il Grammy come miglior album rap. In realtà è un album di jazz perché tutte le sonorità sono estremamente jazz. Io mi sono avvicinato all'hip hop e alla musica elettronica ascoltando pianisti e artisti di jazz che si lanciavano in progetti più ibridi e quindi si può fare anche l'opposto.
Quest’anno a Sanremo è stato dato molto spazio al cantautorato.
Sì, sicuramente ci sono state delle cose diverse dalla trap o comunque dalla musica che va di più adesso. Sono cicli, la trap in teoria dovrebbe essere un genere di nicchia, invece ha sostituito la musica cantautorale, il pop. Non che ci sia un'inversione di rotta, poi tutta la musica è degna di esistere e ha un significato per il solo fatto di essere arte, però quando non c'è più pluralità, quando si trova un filone che funziona e si insiste solo su quello e tutto il resto è relegato all'underground, questo è un po' limitante sotto tutti i punti di vista.
Ma tu ascolti qualcosa di trap o che si può trovare in classifica?
Forse l'unica cosa che si avvicina potrebbe essere Mace, mi piace lui come musicista, mi piace la visione che ha lui della musica. Basta guardare le playlist che ha su Spotify, spazia tantissimo fra i generi e questa consapevolezza della musica poi si riflette in quello che fa.
Su Instagram, in uno degli ultimi video presenti sul tuo feed, con il creator Antonio Giorgino, chiedono a tuo cugino appena adolescente se faresti mai una collaborazione con la rapper Anna, e lui risponde che non sarebbe possibile, tu invece cosa risponderesti?
Che niente è impossibile. Fino a qualche anno fa l'idea di collaborare con Willie, con un rapper, non la vedevo neanche come una possibilità. Ornella Vanoni e Mahmood sono uno dei tantissimi esempi che si può fare invece, l'importante è non snaturarsi, quindi, chissà.
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