A Classic Horror Story, Piove, ora La valle dei sorrisi, produzione Fandango Nightswim e Spok Films, presentato nella sezione 'Fuori Concorso' alla 82esima Mostra internazionale d'Arte cinematografica di Venezia (dal 17 settembre al cinema). Un film su un paese nascosto tra le montagne in cui un nuovo arrivato, tormentato da un passato misterioso, si rende conto che qui vivono solo persone felici. Paolo Strippoli ha poco più di trent’anni ed è la nuova voce del genere horror (e non solo), ha tante idee per la testa, tipo che serve più empatia per questo mondo alienante e che per lavorare nell'arte c'è bisogno di sincerità. “Il cinema come qualsiasi altra forma d’arte si nutre della sincerità di chi lo fa. Io da spettatore guardo quello, quindi necessariamente da regista provo a farlo”. Lo abbiamo invitato nel nostro spazio a La Terrazza by Atlas Concorde (di cu MOW è media partner) e gli abbiamo chiesto cosa ne pensa della nuova generazione affamata di cinema, il significato dei disegni “indossati” alla prima sul red carpet e… Ecco cosa ci ha raccontato.

Paolo Strippoli. Hai presentato alla Mostra del cinema nella sezione fuori concorso il tuo film “La valle dei sorrisi”. Rappresenti una generazione nuova del cinema italiano qui al Lido, cosa hai provato quando hai saputo di essere stato selezionato?
Seguo la Mostra internazionale d’arte cinematografica da quando sono ragazzino. Sono sempre stato appassionato di cinema, quando ero piccolo chiedevo a mio papà di accompagnarmi nelle sale anche quando non potevo entrare alle proiezioni, pensa. Poi sono tornato al Lido durante gli anni di scuola, da solo. Essere qui con un mio film, presentarlo nella Sala Grande è bellissimo, ma anche terrificante perché senti il peso di quella sala, il mito.
Si è discusso molto della crisi del cinema, tra dibattiti sul tax credit e polemiche di ogni genere. Eppure, a mantenere viva la settima arte sembrano essere soprattutto i giovani: mentre molte sale chiudono, sono proprio i ragazzi a tornare a riempirle. Come vedi la tua generazione e il futuro del cinema? E quale consiglio daresti a un giovane che sogna di intraprendere la tua stessa strada?
L’unica raccomandazione che mi sento di dare è di essere sempre sinceri con quello che si vuole fare e quello che si vuole dire. Molto spesso questo percorso è tortuoso, quello che ti porta a fare un film, spesso lo si intraprende per caso o appare come una congiunzione di cose. Ecco, può capitare, nei momenti di difficoltà, di porsi tante domande, però la verità è che bisogna essere profondamente appassionati di quello che si fa e l'unico modo per ritagliarsi uno spazio è capire cosa si vuole fare, cosa si vuole dire. Il cinema come qualsiasi altra forma d’arte si nutre della sincerità di chi crea. Io da spettatore guardo quello, quindi necessariamente da regista provo a farlo.
La programmazione della Mostra di quest’anno è incredibile. Lanthimos, Herzog, Chan-Wook… quali sono i film che avresti voluto vedere qui al Lido?
Questa domanda mi fa soffrire (ride, ndr). Ogni volta che vengo alla Mostra del cinema vedo cinque film di fila e quest’anno per me è stata dura, non ho avuto tempo. A parte il mio che avevo già visto - ride, ndr - ti direi i film di Lanthimos, Park Chan-wook, Samani, Cavalli, Anders Thomas Jense... La verità è che avrei voluto vederli tutti.
Nel tuo film La valle dei sorrisi un uomo scopre un piccolo universo in cui tutti sembrano felici. Ma chi è l'estraneo, chi è davvero 'l’altro' oggi, in questo 2025 di guerre morali e politiche?
Prima di capire chi è l’altro bisognerebbe capire chi siamo noi, perché noi siamo l’altro ed è una cosa che spesso ci sfugge. Tendiamo a vedere il mondo in 2D come se non ci fosse la stessa dimensione che abbiamo noi, la stessa tridimensionalità. Se la gente avesse più coscienza di se stessa e potesse vedersi nell’altro forse questo sarebbe un mondo migliore. La valle dei sorrisi è un film che invita all’empatia, perché nel mondo che mette in scena di empatia ce n’è poca. Si tratta di un paese che è un microcosmo, uno specchio in piccolo, una miniatura di quella che è un po' la nostra società. Un film che racconta di rapporti strumentali perché noi purtroppo siamo disegnati per avere dei rapporti strumentali, che è una cosa brutta, ci mette in crisi, ma troviamo naturale. Molto spesso i rapporti di potere del lavoro finiscono nei rapporti umani, e questo non va bene, come finiscono i rapporti tra persone che devono scaricare sulle altre le proprie frustrazioni, in questo senso i rapporti spesso sono strumentali. L’unico modo per combattere tutto questo è capire che davanti a noi c’è sempre una persona che ci somiglia. Educare se stessi all’empatia è il primo passo per costruire una società più sana che generi meno “mostri”.
Sul red carpet tanti attori, influencer, artisti scelgono simboli, messaggi da far vedere al mondo. Tra bandiere, frasi motivazionali, tu ti sei disegnato delle faccine sulle dita, ci spieghi perché?
Poi chi vede il film lo capirà. Il protagonista del film si disegna queste faccine sulle dita e sono un po’ come un tic, una sorta di vizio che ha, non lo fa per una ragione specifica, anche se poi diventa abbastanza significativo nel momento in cui comincia a prendere possesso delle persone, a muoverle. Si tratta di un gioco che diventa pericoloso, che è un po’ il senso del personaggio, un ragazzo che nel giocare, nel trovare ciò che gli piace fare nel momento in cui ha la possibilità diventa una figura pericolosa.
Cosa porterai a casa da Venezia 82?
L’affetto. Questo film ne ha ricevuto tanto, e io non lo do mai per scontato. Ogni commento, ogni parola - che sia una critica positiva o negativa - mi fa capire che il film non è stato guardato superficialmente, ma che ci si è entrati dentro per esplorarne i temi. Il dialogo nato attorno a questo lavoro, il calore che ho sentito in un luogo così importante per me e per tutti noi, me lo porto a casa e lo custodirò per sempre.
