Dire che lo sport è come la vita, forse, è un’esagerazione. Ci sono al massimo poche partite, una giocata, anche solo un set. Ecco, in quei momenti allora lo sport trascende se stesso. Lo diceva Carmelo Bene a proposito del rovescio di Stefan Edberg. Ma quello non era più nemmeno tennis. Il maestro di Andrea Di Stefano, con Pierfrancesco Favino, presentato fuori concorso alla Mostra del cinema di Venezia, di certo non aspira a quel “oltre” che intendeva Bene. Semmai a dare prova di come l’essere umano sia contraddittorio, fallibile, perdente, incompreso. La superficie di Raul Gatti (Favino, appunto) è quella del tennista dal talento sprecato, arrivato fino agli ottavi di finale al Foro Italico, ma più pronto ad ascoltare gli istinti, l’alcol e le donne, che a rispondere come si deve sul campo. È in una clinica privata per curarsi, indossa i polsini anche fuori dal rettangolo per nascondere il suo passato. Grazie a un annuncio pubblicato da una rivista viene contattato dal padre di Felice (Tiziano Menichelli), tredicenne tennista appena entrato nel circuito nazionale. Il genitore (Giovanni Ludeno) ha creato un atleta solido, pronto in difesa a martellare ma che non va mai in attacco. “Scendere a rete è roba da ricchi”, dice. Il maestro, invece, ha un’idea di tennis opposta: Guillermo Vilas è l’esempio, Ivan Lendl troppo robotico. I due partono per una serie di tornei in tutta Italia, si imparano a conoscere, capiscono i difetti e le mancanze reciproche. Il risultato non è l’unica cosa che conta: il valore di un percorso eccede la vittoria, anche quando la sconfitta brucia.
Già Luca Guadagnino, quando è uscito Challengers, aveva parlato della difficoltà di rendere cinematograficamente il tennis. La sfida ne Il maestro è perfettamente affrontata dal regista e da Giogiò Franchini al montaggio. C’è anche un aspetto autobiografico (Di Stefano ha raccontato di aver vissuto un’esperienza simile) a certificare di come i sogni d’infanzia, anche ossessivi, non per forza siano l’unica strada percorribile. La prova di Favino è efficace proprio perché non vuole essere monumentale: restituisce a Raul Gatti l’umanità stanca, ironica e disillusa di chi avrebbe potuto tutto e invece ha scelto altro. Non è un eroe, ma un uomo che inciampa, e Favino lo interpreta con misura, senza compiacimento. Non basta volere per potere: servono talento, ambizione, fortuna. Siamo circondati da vincenti, ultimamente (per fortuna) anche nel nostro tennis. Jannik Sinner è il numero uno, ma anche lui piange, anche lui perde il Roland Garros con tre match point a favore. Probabilmente, in futuro, anche su di lui vedremo un film. Ma non tutti possono essere Sinner. Ci sono gli sconfitti, quelli che non si rialzano dopo essere usciti al primo turno di un torneo, e che per questo decidono di mollare. E va bene anche così.

