Il Festival del cinema italiano di Tours, in Francia, “Viva il cinema!” è stata l’occasione per incontrare e intervistare il maestro Giorgio Diritti. Ospite d’onore della decima edizione di questo Festival, il regista de L’uomo che verrà (premiato al Festival di Roma con tre David di Donatello), ha presentato questa settimana al pubblico francese il suo ultimo film Lubo, Il vento fa il suo giro e Volevo nascondermi (che era stato distribuito in Francia nel 2021). Ha inoltre tenuto una masterclass davanti ad alcuni studenti in cinema. Un’occasione perfetta, insomma, per incontrarlo e organizzare questa intervista che da subito è diventata un bellissimo incontro e una lunghissima chiacchierata. Arrivato in anticipo con un gran sorriso in volto, ha creato immediatamente le condizioni ideali per questa conversazione che è andata al di là delle domande previste, andando a toccare temi come quello dei migranti (“Noi non vogliamo gli stranieri, ma poi li prendiamo come lavoratori in nero”), della guerra tra Israele e Hamas, e di cosa può fare il cinema in tutto questo.
Giorgio Diritti, quest’anno il Festival “Viva il cinema” ha deciso di metterla all’onore, attraverso la proiezione di tre suoi film (Il vento fa il suo giro, Volevo nascondermi e Lubo) e una masterclass. Cosa ne pensa?
Ovviamente un grande piacere. In un percorso di anni di lavoro è una soddisfazione ricevere questi inviti e queste riconoscenze. Infatti, vorrei dire che anche nei confronti degli organizzatori provo gratitudine. Perché c'è un incontro e contemporaneamente un riconoscimento legato al tipo di cinema che ho fatto, quindi è una cosa che mi ha sicuramente fatto molto piacere. Inoltre, sono ben contento di aver visto anche questa cittadina (Tours, capitale della valle dalla Loira e porta d’ingresso sulla strada dei castelli della Loira nda) che non conoscevo e che è molto affascinante.
Chi ha scelto questi suoi tre film?
“Viva il Cinema!” li ha scelti. Non so quale sia la dimensione della scelta, però condivido questo tipo di decisione. Uno è l'ultimo film realizzato, uno ha un forte collegamento con la Francia quindi capisco la scelta. Ne Il vento fa il suo giro il protagonista è francese, Volevo nascondermi è stato distribuito nelle sale in Francia quindi probabilmente anche per quello c'è un legame forte. Poi chissà, magari per gli altri tornerò tra qualche anno (sorride nda).
Rimaniamo allora un attimo su questo rapporto con il paese. Che rapporto ha lei con la Francia?
Di grande affetto e stima, nel senso che amo il cinema francese. Ma amo anche tantissimo l'approccio nei confronti del cinema da parte del mondo culturale francese e soprattutto del mondo tra virgolette “popolare”. Nel senso che le politiche fatte a suo tempo, la sensibilità che c'è sempre stata nei confronti del cinema, sono una cosa che apprezzo molto. Inoltre, apprezzo tantissimo alcuni autori. È facile citare Truffaut, un esempio che mi ha sicuramente segnato molto quando ero giovane. E quindi c'è un piacere.
E una vicinanza anche con la Francia? Il protagonista de Il vento fa il suo giro è francese.
C’è una vicinanza anche in quel senso di storia. Si dice che Italia e Francia siano un po’ cugini, no? E questo è interessante perché da un lato mantiene viva una dimensione d’identità. Certe volte di confronto e contemporaneamente molti elementi di affinità. Insomma, c'è una visione del concepire la vita in un certo modo, piacevole e sociale. C'è una grande attenzione a certi valori. Ci sono molti punti di contatto che avvicinano queste due culture. D’altra parte, siamo qui a Tours e camminando oggi sono andato avanti e indietro su quello che era un decumano. Quindi la presenza dei romani era anche qui. Forse c'è un'affinità nell'incontro perché dal punto di vista storico e quasi genetico, le persone che sono qui hanno anche radici italiane e viceversa. Quindi penso che ci sia questo valore. Anzi, ogni tanto credo che anche nelle logiche generali di politica europea, Francia e Italia dovrebbero essere come dire, dovrebbero parlarsi un po’ di più in certi momenti, essere più solidali.
Torniamo un attimo ai suoi film adesso. Hanno tutti dei titoli “fantastici”, quasi sensoriali, che evocano atmosfere indefinite e che lasciano anche un velo di mistero per lo spettatore.
Sì, dice “che cos’è”? (ride)
È una scelta voluta ma perché?
Sì, è voluto. Diciamo che nei titoli cerco di trasferire un elemento quasi di invito. Prendiamo il vento: perché fa il suo giro? Naturalmente viene da dire: e poi cosa succede? Volevo nascondermi, perché? Lubo? Cos'è un nome? Una persona? Un posto? Un lupo? Una cosa? Questa direi è la caratteristica anche de L'uomo che verrà, un altro mio film. Può essere eletto in una chiave propositiva, futura: ma in che senso? In che modo? E cioè? Diciamo che nei titoli spesso mi viene spontaneo dare uno stimolo di presentazione del film senza dare una tesi. Entrando già in un rapporto con lo spettatore che diventa quello di presentarvi qualcosa che lo deve e lo potrà incuriosire.
Quindi è così che nascono i titoli, si fa proprio la domanda, come posso invitare lo spettatore?
Ma no, non così direttamente. Ma so che nel mio inconscio, questa cosa conta. Per cui vengono magari due o tre idee e poi scegli pensando: questa è più sonora, più musicale. Ecco Lubo fra tutti è quello forse un pelo troppo ermetico. Ecco oggi lo dico.
E infatti mi ha preceduto, ho una domanda proprio su Lubo. Il titolo è un mistero.
È ermetico. Diciamo, il film nasce dalla lettura di un romanzo che si chiama Il seminatore di Mario Cavatore ma l'idea di chiamarlo così mi faceva pensare più al mondo agricolo. Ovvero una storia completamente diversa da quella del film. Chiamarlo così sarebbe stato rischiare di dare una linea di interpretazioni di un certo tipo che io non volevo. Lubo mi sembrava un marchio, una cosa che ti ricordi. In quel senso era un pochino troppo ermetico. Oggi forse studierei anche un'altra possibilità di dirlo, più comunicativa. Che incuriosisca di più. Anche lui incuriosisce, però gli manca un po’ quel passaggio. Non ti viene voglia di capire di più. Per esempio “un giorno devi andare”, ti viene a dire: dove?
Volevo nascondermi, che racconta la storia del pittore Ligabue. Che cosa l’ha attratta nella sua vita?
Sono molti gli elementi che mi hanno affascinato. Innanzitutto, era già stata fatta, tantissimi anni fa, io avrò avuto dieci anni, una produzione televisiva in Italia su questa figura. La produzione era molto televisiva però anche con delle cose interessanti, e mi aveva colpito questo personaggio così particolare. Però, come dico, ero in fase infantile, ma forse mi è rimasta dentro comunque la sensazione. Poi, nel tempo, mi è capitato di conoscere alcune delle sue opere, di aver voglia di capire chi fosse. E questo ha fatto maturare alcune sensazioni, in particolare la storia di un forestiero sradicato dalla sua vita. È la storia di un uomo che oggi definiremmo perdente, o comunque che ha dei grossi problemi fisici e psichici. Potrebbe essere definito da alcuni come uno scarto della società o un errore. Infatti, gli viene anche detto, “tu sei un errore” gli dice a un certo punto il maestro: non a caso ho messo quella battuta. Mi sembrava importante trasferire il concetto che ognuno di noi ha un valore, una potenzialità. E che anche la persona che potremmo definire più fragile e debole, ha dentro un talento, una sua energia, che può far sì che diventi un uomo, diciamo di successo, usiamo questo termine. Può essere anche per la persona che ha qualche problema un'occasione di riscatto, un'occasione per ritrovare una dimensione di vita in cui c'è un senso di riconoscimento di sé stesso e contemporaneamente sentire che gli altri che ti riconoscono. Quindi vuol dire stare bene, non essere arrabbiati, depressi, non essere marginati. Tutti questi elementi mi sembravano interessanti come base. Inoltre, è un forestiero che arriva da un paese lontano. Insomma, il tema dei forestieri è un tema che nella storia dell'umanità è sempre presente, anche in questo periodo più che mai.
In che senso?
Noi non vogliamo i forestieri però contemporaneamente li prendiamo come lavoratori in nero. Poi succede come è accaduto a Firenze l'altro giorno (il crollo nel cantiere Esselunga nda), insomma, che sono i primi a perire. C'è una grande ipocrisia, secondo me. Incapacità politica in Italia nel gestire questa dimensione da anni, non è un problema che si lega solo a chi governa attualmente. Questa paura dell'invasione, dello straniero, del diverso, invece bisognerebbe lavorare meglio capendone maggiormente l'utilità. Un’utilità che c'è, che c'è stata; dalle badanti per fare un esempio, a tutto il mondo della dell'edilizia. Adesso c'è l'attenzione molto sudafricani, ma gli albanesi e i rumeni? Hanno tenuto e tengono, io penso, in piedi metà del mondo dell'edilizia italiana. Perché i nostri, tra virgolette, giovani, fanno fatica a fare certi lavori. E quindi è un paradosso: da un lato che c'è una necessità come in agricoltura dove c'è una carenza di persone incredibile. Ma dall’altro non si riesce a strutturare questa cosa con le tutele giuste, con le verifiche giuste. Non so, è un limite che evidentemente manda in tilt le classi politiche da tanti punti di vista e si preferisce far giocare queste persone. Queste persone giocano alla lotteria della vita sul mare. Mi sembra una cosa pessima, una cosa di cui tutti noi dovremmo avere un senso di vergogna, un grande senso di vergogna. Se noi vogliamo dobbiamo fare in modo di non farli partire. Non so come, ma il paradosso è che noi abbiamo bisogno di manodopera; quindi, o convinciamo le nuove generazioni a fare i muratori, a fare lavori manuali, a mettersi nell'artigianato. Che tra l’atro dà anche molta più soddisfazione che stare in certi uffici magari. Ecco, se si rivalorizzata qualcosa lì o sennò dobbiamo rivolgerci ad altri. Abbiamo aperto una grande parentesi su questo, però il tema della diversità c’è nella storia di Ligabue.
Infatti, su questo tema della diversità, il diverso, lo straniero. Sono le caratteristiche dei suoi personaggi.
Devo dire che forse c'è qualcosa di leggermente personale e di inconscio. Me ne sono reso conto dopo aver fatto un po’ di film, io comunque sono figlio di esuli istriani. Quindi ho sentito probabilmente molto indirettamente tutte le nostalgie dei miei genitori rispetto a una terra persa. E queste cose penso che mi abbiano spinto ad avere più attenzione a questo tipo di storie. Inoltre, penso che sia proprio la storia del mondo. La storia del mondo è fatta di movimenti, di migrazioni, di scambi, ed è sempre stato così. Nel momento in cui i mezzi di trasporto sono diventati efficienti è stato più facile ma la gente andava anche a piedi. Ma penso che anche il futuro comporti una necessità e la capacità da parte di ognuno di vivere in una società in cui siano rispettate le identità, e contemporaneamente la capacità di vivere insieme avendo delle differenze. Il segreto è questo. La diversità è una cosa che può arricchire tantissimo, se la sappiamo interpretare nel modo giusto. Se sappiamo non rifiutare, ma accogliere quello che di nuovo una persona ci sta portando. Accogliere nel senso ascoltare quanto meno. Questo gioco di equilibri darebbe la possibilità di una convivenza che porterebbe il mondo a stare meglio. Purtroppo, i tempi in cui viviamo mi raccontano che io sono un po’ un illuso, cioè che spero in cose che all'orizzonte sembrano un po’ lontane. Questo è un po’ il dubbio, perché vediamo com'è l'atteggiamento nei confronti delle guerre che stiamo vivendo, come c'è un fermento di, tra virgolette, nazionalismi che diventa molto duro insomma.
Torno un attimo al Festival: si parla qui a Tours di giovane cinema italiano. Secondo lei si dà più spazio ai registi esordienti in Francia, o quanto meno all’esterno, rispetto all’Italia?
La sensazione che ho sempre avuto che in Francia c'è un rispetto, una cura, un'attenzione nei confronti del cinema che l'Italia sta ancora cercando di trovare. Ha fatto dei passi avanti rispetto al passato, ma uno dei nodi importantissimi qui in Francia è che è stato fatto un grande lavoro anche di coinvolgimento a livello scolastico. Il cinema in Francia si insegna nelle scuole. E quindi è un'occasione di grande arricchimento. E anche, più banalmente, una creazione di un pubblico per il futuro.
E in Italia?
C’è sempre l'iniziativa di qualche insegnante particolarmente illuminato, di qualche comune particolarmente sensibile che danno l'opportunità di portare il cinema più a contatto con la scuola. Fortunatamente ce ne sono sempre di più, e quindi questo positivo. Però secondo me il cinema dovrebbe diventare materia di insegnamento. Non solo perché diventerebbe naturalmente il punto di contatto tra storia, filosofia e tutte le materie umanitarie, ma in certi casi anche, dico paradossalmente, le materie scientifiche. E poi soprattutto Io credo che nell'ambito scolastico ci dovrebbe essere grande capacità di parlare, di capire l'oggi. Cioè non solo di fare una scuola che insegna il passato. Il passato è importante, ma è importante anche una scuola che ci insegni a leggere anche l'oggi. In questo il cinema contemporaneo tante volte sa essere molto utile a inquadrare quella che è la nostra realtà, i cambiamenti, le mutazioni della società. Saper accettare certe diversità, certe evoluzioni, vedere certi allarmi. Io credo che lì sarebbe la vera scommessa, il salto di qualità sarebbe nel riuscire a far sì che la presenza del cinema a scuola fosse una costante. Basta aver voglia.
In questi giorni terrà anche una masterclass. Che consiglio darebbe ad un giovane regista esordiente?
Credo che il primo importante consiglio sia quello di seguire ciò che si sente dentro come qualcosa di importante. Far sì che ci sia una componente d'identità in ciò che si realizza. E l'altro consiglio è quello di non essere poi troppo autoreferenziali o chiusi su un meccanismo di comprensione del tutto, solo in funzione di quello che si fa. Quindi è importantissimo vedere altro cinema, ma soprattutto vedere il mondo. Quando ho occasione di fare delle docenze, dico ai ragazzi a cui parlo: mettetevi su una panchina e guardate quello che succede intorno a voi. Andate in un supermercato, fate la stessa cosa, cercate di guardare, di entrare in comunicazione con le persone, con le sensazioni, perché tante volte le storie nascono anche da quello, nel sedersi in una piazza e magari ti si avvicina, qualcuno e si inizia a parlare. Non è l'unica strada, però sicuramente per quel cinema che io amo che è in contatto con le vicende dell'uomo, con la vita, la storia, con gli aspetti più profondi della psicologia, in cui noi vogliamo capire chi siamo; ecco, in quella dimensione lì è fondamentale guardare il mondo. Avere fame di conoscere direi. Questa mi sembra una buona strada.
Arriviamo così di nuovo a Lubo: ha detto che è un film che ha necessitato un certo tempo di gestazione.
Penso che alla masterclass approfondirò giustamente anche questo discorso. Perché l'altra cosa importante, che si riferisce a Lubo ma che si può anche allargare, è anche questa: darsi il tempo giusto nelle cose. Ci sono persone ce l'hanno istintivamente, ovvero che in breve fanno dei capolavori perché hanno un grande talento, ma spesso vedo che l'ansia di realizzare le prime cose è quella che poi porta ad inciampare. Essendoci tantissima produzione di cinema, credo che si debba avere la forza di riuscire a fare qualcosa che sia forte. Forte vuol dire, anche nella più grande dolcezza e nel silenzio totale, che ci sia un'identità. E quindi a chi fa questo mestiere mi vien voglia di dire: mettici qualcosa di tuo. La cosa fondamentale è avere dentro quella che io definisco l’importantissima urgenza espressiva. Questo desiderio come vincere le Olimpiadi. Come gli innamoramenti. Ecco, forse fare un film potrebbe avere anche questo parallelo: dovrebbe essere fatto sempre come un incontro di innamoramento, e questo probabilmente darebbe grande forza.
Rimanendo su Lubo, secondo lei come sarà accolto qui in Francia?
Ovviamente spero bene, ma la cosa interessante è che la sua storia è universale. Tra l'altro di nuovo, tocca temi a me cari: la diversità, in questo caso, di un'identità, di etnia che viene discriminata. Penso che sia molto potente e forte e utile in questo periodo. Poi, involontariamente, è anche un film che parla di cose (il fatto di sottrarre i bambini) che questi ultimi mesi hanno portato alla luce. Ci sono vari elementi secondo me che sono molto affini all’oggi; quindi, penso che sia una buona occasione anche per riflettere su come ognuno di noi deve mettere la propria energia per cercare di garantire la vita. E quando dico la vita parlo anche della possibilità delle persone di fare quel che credono e che non ci deve essere qualcuno che decide come tu devi essere. Purtroppo, la situazione mondiale in cui viviamo in questo momento sta dando degli esempi forti in un altro senso. Sia quello che Putin fa ed esprime. Sia nella condizione, secondo me imbarazzante, del conflitto tra Israele e i palestinesi. Che poi dovrebbe essere un conflitto tra Israele e Hamas, e invece è diventato che i palestinesi sono le vittime sacrificali di entrambi. Tornando al discorso russo ucraino, insomma, anche in Ucraina sono stati portati via molti bambini e anche questo è un punto di contatto. Insomma, penso che sia un film che ha dentro molti punti interrogativi su cui inevitabilmente, alla fine del film devi scegliere, devi essere tu a scegliere. E poi anche è un film che ti porta, a mio avviso, a pensare a quanto, leggi sbagliate, discriminazioni, accendano un meccanismo che può creare reazioni imprevedibili nel tempo.
Cosa pensa del conflitto in Medio Oriente?
Io non so fra quanti anni ci sarà la possibilità di miglioramento. Forse mai. Io vorrei seminare speranza, ma non è molto facile, perché il mondo attorno a noi nell'arco di un anno o due è riuscito a mettere in piedi delle situazioni inverosimili. Inoltre, (non so, magari sarà oggetto del mio prossimo film) c'è anche una parte di attenzione sulla condizione di distacco dal valore dell’uomo. Nel senso che ci stiamo abituando, a causa della dimensione tecnologica, a ridurre l'empatia, il rapporto umano diretto, il piacere di incontrare voi, il vostro sorriso, le vostre chiacchiere. Cioè stiamo perdendo questi rapporti. E questa cosa, contemporaneamente, fa sì che sottilmente si arrivi ad una condizione di relativizzare il valore dell'uomo. C'è un meccanismo di imitazione oggi, di necessità di affermazione di sé che a mio avviso sta schiacciando il valore dell’uomo della persona. Stiamo diventando sempre più auto riferiti.