L’arte contemporanea è una presa in giro, e Maurizio Cattelan è il suo burlone più riuscito. Se ne dovrebbe parlare così, senza troppi giri di parole, senza quella colata di intellettualismo da rivista patinata che cerca di trovare senso profondamente filosofico in chi riesce a vendere una banana attaccata a un muro con lo scotch per 6,2 milioni di dollari. Perché in fondo lo sappiamo tutti (o quasi): la banana, il dito medio gigante, il cavallo appeso al soffitto non sono altro che un gioco crudele ai danni di chi ha abbastanza soldi da comprarsi il ridicolo e convincersi di poterlo chiamare “installazione concettuale”.
E così arriviamo a una delle opere più rappresentative della nostra epoca: America, un water d’oro massiccio, funzionante, installato a Blenheim Palace nel Regno Unito come suprema satira del capitalismo. Un pezzo d’arte che invitava il pubblico a fare la cosa più naturale e necessaria sopra un simbolo sfacciato di eccesso e ostentazione: pisciarsi, cagarci o al limite vomitarci sopra. Un esperimento sociale? Una dichiarazione politica? No, molto più semplicemente una trappola per tonti, perfettamente riuscita (compreso il titolo contro i cattivi yankee). E poi, il colpo di scena: un gruppo di ladri decide di assaltare quello storico palazzo inglese non per rubare un quadro di Gainsborough o un busto antico, ma per sottrarre il cesso d’oro.

I ladri sono stati beccati e mandati a processo e Jeremy Clarkson, con il suo cinismo ben oliato, ne ha scritto su The Times con il tono di chi vede il declino della civiltà scorrere davanti ai propri occhi come un reality show di pessima qualità: "Questi ladri hanno fatto delle ricognizioni, studiato gli accessi, scelto il momento perfetto per colpire. Poi, entrati nel palazzo, hanno ignorato tutti i capolavori per trafugare un wc. Io li amo". Ed è difficile dargli torto.
Ma il punto centrale della riflessione di Clarkson, al di là della tragicommedia del furto, è proprio l’oro. Perché l’oro è da sempre il feticcio degli arricchiti senso estetico, il trofeo di chi ha bisogno di dimostrare qualcosa, l’ossessione di chi non ha mai capito davvero il concetto di bellezza: "Quando vedo un Rolex d’oro, provo un’irrefrenabile voglia di allontanarmi dalla persona che lo indossa. Niente dice ‘non ho gusto’ più di un pezzo di metallo lucido al polso".

Eppure, se l’oro è diventato il simbolo universale dei tamarri, resta anche un bene rifugio finanziario. Clarkson racconta di quando, nel 2008, seppe in aeroporto del crollo di Lehman Brothers, capì che il suo denaro stava per evaporare e, con la freddezza di chi sa come va il mondo, lo convertì tutto in oro prima di imbarcarsi su un volo per San Francisco. Quando atterrò, il valore del suo investimento era già aumentato del 50%.
Ma probabilmente non potrà durare: tra venticinque anni, argomenta Clarkson, l’oro sarà finito. Con 244 mila tonnellate già estratte, ne restano solo 67 mila. E, quando anche queste saranno trasformate in rubinetti pacchiani e collane per nuovi ricchi senza criterio, il mondo dovrà trovare un altro bene rifugio. Clarkson suggerisce il plutonio, perché avrebbe un’utilità molto concreta: "Se qualcuno decidesse di costruire un bagno in plutonio, sarebbe la prima e ultima volta che lo userebbe. Perché dopo aver tirato lo sciacquone, scoprirebbe che anche i suoi organi interni se ne sarebbero andati".
E forse, a pensarci bene, sarebbe proprio questo il finale più adatto per l’arte contemporanea: un po’ di plutonio non a prova di credulone, una firma radioattiva sul certificato di morte della civiltà occidentale. E Cattelan, probabilmente, ne riderebbe.

