Mezzo secolo di vita. Battezzato – eravamo ancora nel Novecento – dall’esperienza artistica al fianco di Pino Daniele. Poi il jazz, un’idea internazionale di musica e cantautorato. L’eco degli elogi francesi, perché Paolo Conte non è l’unico export italiano che va forte sotto la tour Eiffel. La parabola di Joe Barbieri è stata, ed è, avventurosa, avventurosamente sospesa. Gli parli del passato e lui ti spinge in un presente che ambisce a farsi futuro. Gli parli del presente e percepisci nelle sue parole una profondità che non può essere solo figlia di quel presente. Ora Joe è uscito con un album, “Vulìo”, che guarda indietro ma anche lontano. Le tracce del disco ripercorrono alcune tappe cruciali del grande canzoniere napoletano. Un album cameristico “per corde” (accompagnato dalla chitarra manouche di Oscar Montalbano e dalla DBguitar di Nico Di Battista).
“Vulìo” è un progetto elegante, audace. Come nasce?
Sull’eleganza non mi esprimo, sull’audacia sì. Ho affrontato il disco con la consapevolezza di prendermi vari rischi. Mi misuro con un repertorio di un’altezza vertiginosa, già affrontato, in passato, da artisti più legittimati a farlo di me. Ho rotto gli indugi proprio assecondando un “vulìo”, un desiderio molto forte. A 50 anni, gran parte dei quali trascorsi a fare musica, ho deciso di non avere rimpianti. Decidendo di fare, anche in modo imperfetto, ciò che più sentivo.
Come si arriva alla tradizione partendo da premesse artistiche tutt’altro che tradizionali?
È un gesto d’amore che non pretende di essere il miglior gesto d’amore del mondo, ma che è completamente mio.Ci si arriva con la spontaneità. E la convinzione di non poter essere mai completamente esaustivo e originale.
Quando a vent’anni facevi e pensavi musica immaginavi anche che un giorno ti saresti confrontato con questo repertorio?
No, mai. Fino a un paio d’anni fa rifiutavo un’ipotesi simile. Però è accaduto. E il primo ad essere sorpreso sono io.
Hai un profilo artistico internazionale. Piaci ai transalpini, fai una musica piena di atmosfere esotiche. Da dove nasce questa libertà?
Innanzitutto dalla lezione di Pino Daniele, dalla sua capacità di mescolare, prendere, restituire. Sento tanto, ad esempio, in termini di purezza, una vicinanza con Roberto Murolo e João Gilberto. Negli anni (tanti) ho assorbito una summa di suggestioni, ascolti, fascinazioni.
Guardiamo cosa c’è fuori: cosa vedi, oggi, se osservi il sistema discografico?
Mah, il fatto di frequentare da anni, a Roma (dove vivo), un’accademia gratuita sovvenzionata dalla Regione Lazio in cui tengo una sorta di corso/conversazione sulla scrittura della canzone, mi ha permesso di conoscere tanti ragazzi che mi espongono a nuovi linguaggi che si stanno ormai nettamente delineando. Tutto cambia, come sempre è stato. I cantautori esistono ancora, ma cambia l’abito. Un festival come il Premio Tenco già da vari anni si è lanciato su artisti che sono più mainstream di prima ma che rappresentano un nuovo modo di essere cantautori. Siamo in cammino, direi. Tanti di questi ragazzi vedono in Angelina Mango o in Madame dei capisaldi, ma al contempo si ascoltano ancora Sergio Endrigo.
Hai solo tangenzialmente alluso alla scena trap. Vedi in quella scena uno di quei nuovi linguaggi di cui parlavi?
Certo. Non è qualcosa a cui mi sento vicino, ma per una questione di gusti, età, formazione. La trap è un segno dei tempi.
Come l’uso ed abuso dell’autotune?
(si apre in una fragorosa risata, nda). Intanto a me le voci un po’ stonicchiate piacciono parecchio. Mi piace sentir cantare chi non lo fa per mestiere, ci sento dentro una grande genuinità. Per il resto sono nostalgico; se cantare è la tua professione., allora amo ascoltare cantanti che sono padroni della propria voce. L’autotune, nello specifico, è un suono. Va concepito come tale, come fosse uno strumento.
In un recente reel che gira sui social un redivivo Tony Hadley (Spandau Ballet) afferma che, al di là dell’effetto sulla tonalità della voce, l’autotune lo infastidisce perché rende tutto troppo meccanico, come se oltre alla voce sentisse anche il “fuzz” del meccanismo elettronico che produce l’effetto.
Anch’io non lo amo. Non lo userei, se non in un caso estremo che ora non saprei nemmeno ipotizzare. Però fino a poco tempo fa neppure ipotizzavo un disco di canzoni tradizionali napoletane.
E l’informazione musicale, di cui anche MOW fa parte?
Credo sia frammentata quanto la musica di cui parla. Anche nell’informazione di settore trovo troppi improvvisati. Tutti possono scrivere di tutto o quasi. Di incontri molto discutibili ne faccio parecchi con i media.
Quale credi possa essere la chiave giusta affinché un ragazzo di vent’anni possa apprezzare il tuo album?
C’è una sola chiave: la curiosità. Tendiamo a credere che prima fossimo tutti più curiosi, ma non credo sia così vero.