Non so se capita anche a voi di avere, durante la notte, idee che vi sembrano folgoranti, incredibili, baciate dal Dio della genialità, idee che poi si rivelano, la mattina, una volta scesi dal letto nel quale siete evidentemente stati tormentati e insonni, delle emerite boiate. A me capita spesso. Perché soffro di insonnia, quindi passo buona parte delle mie notti lì nel letto a pensare, e perché, per mia natura, ho la tendenza a lasciarmi andare a visioni, a volte realmente geniali, molto più spesso incredibilmente idiote. Se tutti i progetti che ho ideato nottetempo si fossero rivelati per come mi erano apparsi lì al buio, ora sarei titolare di una qualche isola dei Caraibi, intento a gettare i ghiaccioli del mio Daiquiri a qualche delfino, invece sono qui, un mestissimo lunedì mattina a Milano, il grigiore del cielo a fare pendant col grigiore che alberga dentro di me. Perché si avvicina il Blue Monday, cioè quello che viene a ragione indicato come il giorno più triste dell’anno, in inglese la parola Blue indica sia il colore che la tristezza, qualcosa di molto vicino al colore del cielo, appunto. Il fatto è che stanotte, appunto per le ragioni di cui sopra, avevo avuto un’illuminazione. Sapendo di dover e voler scrivere del Blue Monday, mi era sovvenuto che esattamente trentotto anni fa, fatto che ulteriormente rende triste questo giorno, perché io trentotto anni fa già c’ero e ero anche qualcosa di assimilabile a un adulto, circolava una canzone con esattamente quel titolo, Blue Monday, a firma di quel consesso di geniacci, loro sì, che risponde al nome di New Order. Il video che accompagnava la canzone, mi sono ricordato sempre nottetempo, era quantomai singolare, perché c’erano questi tizi vestiti come l’Omino della Michelin, quindi con addosso abiti di gommapiuma che li facevano sembrare enormi, tizi che saltavano al ralenti prendendosi a schiaffi al ritmo della canzone. Fermi, non alzate il ditino per puntualizzare, lasciatemi proseguire che poi ci arrivo. Loro, i New Order, al secolo, Bernard Sumner, Peter Hook e Stephen Morris, rispettivamente voce e chitarra, basso e batteria elettronica e batteria, tutti anche impegnati dietro le macchine e tutti in precedenza nella formazione dei Joy Division, dove a cantare era ovviamente Ian Curtis, simbolo iconicissimo della New Wave e anche di Manchester tutta. Ecco, l’idea che nottetempo mi era apparsa geniale era quella di fare un passaggio, forzato ma neanche troppo, stando almeno ai miei standard, dal video di Blue Monday, che per inciso si intitolava in realtà Blue Monday 88, di qui il mio ricordarmi con precisione l’anno di uscita, alla band di Love Will Tear Us Apart, e nello specifico alla copertina del loro album Unknown Pleasure, a sua volta una delle copertine più iconiche di sempre. La copertina, sfondo nero con tratti in bianco, rappresenta un diagramma che, tenete sempre a bada quel ditino, per cortesia, rappresentava le onde radio emesse da una persona che sta urlando per la disperazione.
Capita l’idea? Avrei giocato sul fatto che tutti parlano, perché in effetti ne parlano tutti, del terzo lunedì di gennaio, il Blue Monday del 2025, e avrei quindi ricollegato il tutto a quella che in fondo è stato il decennio a torto considerato più effimero e superficiale, gli anni Ottanta, passando quindi dai New Order e il loro video buffo, dove in effetti il ritmo della canzone è scandito, almeno visivamente, da due che si prendono a schiaffoni, bella metafora di un lunedì lavorativo, ai più tragici Joy Division, epigoni della New Wave dura e pura, Ian Curtis a suicidarsi proprio nell’anno che apriva quel decennio, depressione, disperazione, tristezza, il tutto fermato sulla copertina del loro album più noto, in quel diagramma così affascinante ma che in fondo nasconde qualcosa di assolutamente angosciante. Nello scrivere questo, mi sono detto nottetempo, avrei switchato dalla tristezza alla disperazione, e siccome farlo parlando solo del Blue Monday mi sarebbe parso eccessivo, forse addirittura offensivo, avrei tirato in ballo il capitalismo, il nostro essere costretti a vivere una vita da schiavi, magari citando anche Mark Fisher, che in questi casi funziona sempre, lui che di musica si è così nutrito e che ha poi deciso di uscire di scena esattamente come Ian Curtis. Avrei anche citato il mio amico Paolo Bartola, che ogni tanto ricorre nei miei pezzi, colui che insieme al mio altro amico Stefano Renzi, anche lui figura ricorrente del mio immaginario, mi ha introdotto al rock in tutte le sue sfumature, il primo più a quello britannico, il secondo a quello americano, e avrei citato di quando era subito dopo la caduta del muro di Berlino andato a Praga e, lui così amante dei Joy Division, si era commosso nel leggere scritto con uno spray su un muro “Ian Lives”, convinto che lo Ian in questione fosse appunto Curtis, laddove si trattava evidentemente di Palach, quindi Jan e non Ian, eroe cecoslovacco che mentre i carrarmato sovietici facevano irruzione in città nel 1969 decise di protestare dandosi fuoco come uno di quei bonzi immortalati nella copertina del poderoso eponimo album dei Rage Against the Machine, uscito giusto quattro anni dopo quel Blue Monday 88 da cui tutto il mio ragionamento era partito, in un decennio, i novanta, decisamente più votato alla violenza e anche a una forma di ribellione affatto sopita. Tutto bellissimo, per dirla col direttore Moreno Pisto. Tutto perfettamente col mio stile, quello per il quale mi permetto spesso di saltare di palo in frasca per poi arrivare al punto.
Solo che tutto questo mio ragionamento notturno, se il mattino ha l’oro in bocca per noi insonni la notte a volte ha l’oro a volte la merda, è chiaro, era fallato. Peggio, era proprio totalmente sfasato, perché il video nel quale i New Order traslavano visivamente il ritmo della loro batteria elettronica in due tizi buffi che si prendono a schiaffoni non era quello di Blue Monday 88, ma quello di True Faith, dell’anno precedente. Un video delirante, certo, dove in realtà i tre tizi imbottiti come gli Omini Michelin non erano neanche i due che si prendevano a schiaffi, la memoria a volte gioca brutti scherzi, ma loro tre, i New Order, in altra parte del video. Il video di Blue Monday 88, invece, era altrettanto delirante, ma senza schiaffoni e senza omini Michelin. Disegnini, un cane in piedi in bilico su una pallina da tennis, bambole inquietanti. Dirò di più, vedendo il video, mi è pure arrivata netta la percezione che io abbia in fondo confuso nella mia mente, parecchio confusa di suo, il video di True Faith con quello di She Drive Me Crazy dei Fine Young Cannibals, dove a scandire il tempo sono di volta in volta tizi buffi che saltano come rane, tizie vestite strano che si prendono a testate, tipi inquietanti che spuntano da cilindri colorati. She Drive Me Crazy, per la cronaca, è del 1989, sempre in quel decennio lì. Una vera debacle, insomma, con la mia geniale idea che, come un soufflé venuto male, si è afflosciata con le prime luci dell’alba. Siccome quando le cose vanno male potrebbero sempre andare peggio, mi è poi venuto scrupolo di andare a controllare, e sì, i New Order hanno fatto il video di Blue Monday 88, quello di cui ho già parlato, ma la canzone originale, Blue Monday e basta (non nel senso che si intitola “Blue Monday e basta”, ma nel senso che si intitola “Blue Monday”, e basta) è del 1983, uscita col lancio del loro secondo album, Power, Corruption & Lies, quella dell’88, come quella del 1995, successiva, sarà una nuova versione remix. A poco servirà ora dire che il video di Blue Monday 88 è stato costruito su immagini del fotografo William Wegman, suo il cane che compare all’inizio, mentre i disegni sono del grafico Robert Breer, che quello di True Faith, diretto da Philippe Decouflé si rifà al “balletto triadico” di Oskar Schlemmer, opera coreografica del 1922, siamo in piena Bauhaus (ora potrei strafare andando a parlare appunto dei Bauhaus, ma ho cinquantacinque anni e so quando è il caso di arrendersi, quindi lascio in pace Peter Murphy e soci, così come la scuola di architettura tedesca che li ha ispirati e passo oltre).
Anche perché il soufflé in questione non si è solo afflosciato, ma tenuto troppo a lungo in forno è andato in fumo, letteralmente, perché andando a cercare info sulla copertina di Unknown Pleasure dei Joy Division, seconda parte del mio ferreo assioma, mi sono ricordato che la faccenda del diagramma dell’urlo disperato era una cazzata che girava ai tempi su certe fanzine, niente internet dove poter fare fact-checking, e probabilmente neanche tutta questa volontà di sapere sempre la verità dura e pura. La copertina di Unknown Pleasure dei Joy Division, uscito nel giugno del 1979, quando io avevo appena dieci anni (li avrei conosciuti un po’ dopo, io, proprio grazie ai miei due amici, più grandi di me), rappresentava il diagramma delle onde sonore emesse da una pulsar di neutroni, niente a che vedere con la disperazione di Ian Curtis, con la depressione, men che meno con la sciocca tristezza del primo lunedì lavorativo dell’anno. Una debacle degna di essere raccontata, mi sono detto a questo punto, perché alzarsi col piede sinistro, quello giusto direbbe Morgan, è in fondo dar adito a chi pensa che quando le cose vanno male e si tocca il fondo si può sempre cominciare a scavare, e che quindi un Blue Monday, di suo giorno indicato come il più triste di tutti, potrebbe anche diventare il più triste e quello nel quale prendi delle gaffe capaci di alzarsi e camminare da sole, neanche fossero Pinocchio. Chiudo quindi suggerendovi di iniziare questa giornata, o magari di chiuderla, a seconda di quando leggiate questo mio pezzo (magari sarà ferragosto e vi sarà capitato per caso sotto gli occhi, seguendo chissà quale sghiribizzo dell’algoritmo, e starete in spiaggia accaldati, fissando ossessivamente il culo della tipa che prende il sole nel lettino di fronte a voi, vallo a sapere), chiudo quindi suggerendovi il pezzo che ritengo essere il più triste di sempre, pezzo che per inciso è stato inciso e pubblicato sempre in quel decennio, gli anni Ottanta a torto considerati un concentrato di vacuo divertimento e edonismo reaganiano (cit. Roberto D’Agostino). Forse per coerenza avrei dovuto sceglierne una dei Novanta, che so, Everybody Hurts dei R.E.M., ma ho pur sempre trent’anni di carriera da onorare, e che cavolo, quindi ecco a voi Sometimes It Snows in April di Prince, dal pregevole album Parade, anno del Signore 1986. Cosa di meglio di una tristissima canzone che parla di quando a volte nevica in aprile in una grigia e tristissima giornata di metà gennaio. Ah, quando si dice essere baciata dal genio.