Avevo pensato all’immagine di una polpetta dentro cui qualcuno aveva infilato delle lamette e dei pezzi di vetro. Per dire una cosa che al tempo stesso appaga il tuo piacere, le tue papille gustative, ma ti ucciderà, procurandoti una dolorosa e fatale emorragia interna. Però mi è sorto il dubbio, legittimo, che paragonare un album a una polpetta mortale non sia esattamente il modo più efficace per indurre un lettore all’ascolto. Quindi no, niente polpette con dentro lamette e pezzi di vetro. Anche se l’ascolto di In memoria di, album d’esordio di Giorgia Pietribiasi, in arte Lamante, è esattamente come ingerire una polpetta gustosa, fatta in casa, ma che ci ucciderà. Lamante, nome strano, ma di Giorgia che canta ce n’è già una, anche piuttosto ingombrante, mi ha detto, e quell’altra Giorgia è un ottimo disincentivo a usare solo il nome di battesimo, il cognome è decisamente ostile, per come è scritto, e per quel che si porta dietro, ottimamente esplicitato nel disco, mi dirà, quindi Lamante sia. Tornando al disco, undici tracce vivide, pulsanti, dolorose, urlate, non nel senso che Lamante urla invece di cantare, ma nel senso che sembrano uscite come per impossibilità di tenersele dentro, come quando si urla perché ci si è fatti male, o per sfogare una qualche rabbia repressa. Una storia di memoria, i titoli non è che si trovano lì per caso, e di conti da fare con un passato ingombrante. Nata a Schio, provincia di Vicenza, distretto industriale specializzato in lanifici, luogo con la più alta intensità di terroristi, e di conseguenza di eroinomani, negli anni Settanta, Lamante ha deciso di lavare in piazza i panni della propria famiglia, intessendo un racconto crudo, duro, pulsante.
Una storia di morte, la zia uccisa da un’overdose prima che lei ancora nascesse, convitata di pietra di tutta la sua infanzia, di lotte e di arresti, quindi una storia di vita, tanta vita, difficile da mettere una parola dietro l’altra, anche se lei, Lamante, guidata da Taketo Gohara, ha saputo miracolosamente come fare a riuscirci. Ascoltando queste tracce, incatalogabili da un punto di vista strettamente musicale, se non a metà strada tra il cantautorato e certo rock alternativo, epoca Tora! Tora!, un disco che sarebbe potuto uscire per i la Mescal anni Novanta, o per le produzioni del Consorzio dei Suonatori Indipendenti, punk nell’urgenza di stare lì a dire quel che c’è da dire, Lamante si mette a nudo, bellissima nel suo essere esattamente per come è, poco incline a sottostare ai canoni estetici dettati dalla moda, seguitemi, sto metaforizzando ma neanche troppo, spigolosa e pericolosa come una strega. Ecco, Lamante è una strega, è indubbio, perché è una donna che dice, che parla, che canta, che racconta, e dice, parla, canta e racconta storie dolenti, di sofferenza, ma anche di libertà, di liberazione, storie quindi che sono quantomai politiche, femminili e femministe, letteratura di quella che un tempo faceva gente come Hubert Selby JR, per intendersi, o Kathy Acker. Ecco, Kathy Acker, dovessi fare un nome e un nome soltanto, farei quello di Kathy Acker, altrettanto punk, altrettanto sfacciatamente femminista, altrettanto poco assuefatta al farsi incasellare, strafottente nel non farsi incasellare, erotica e al tempo stesso così anarchica da potersi permettere di parlare anche d’amore (ascoltate Prima di te, e poi mi dite, canzone che ha però il suo preciso contraltare in L’ultimo piano, sessuale e a suo modo oscura).
Dovendo fare nomi, ma perché mai dover sempre fare nomi, cazzo, mi viene in mente Angela Baraldi, ma anche Cristina Donà, ma pure, vai a sapere perché, il Leandro Barsotti del suo album Il caso Barsotti, sarà una questione di urgenza e di volontà ferrea di disturbare. Un esordio, il suo, lo dico mettendoci la mia faccia tosta, che ci ricorderemo a lungo, Lamante sta anche scrivendo un memoir, di lei ci ricorderemo non solo per la musica, fidatevi di me, un gioiello di quello che vorremmo e dovremmo al tempo stesso tenere nascosto per godercelo noi e noi soltanto, ma anche mostrare al mondo intero, la paura che venga sciupato, scalfito, non sufficiente a tenerlo celato.
L’idea che il tutto sia nato perché un giorno Taketo Gohara, che aveva sentito il suo demo, l’ha chiamata proponendole di produrla, lui che ha lavorato con molti grandissimi, dai Negramaro a Motta, passando per Capossela, Renzo Rubino e tanti altri, rende il tutto ancora più magico, roba da streghe, appunto. E visto che si parla di streghe, che poi questa cosa di dover trovare un collegamento, e di trovarlo usando una cosa che io stesso ho detto, quindi grazie al cazzo che posso usarlo con agilità, mica ho trovato quella parola, “strega”, in strada, l’ho scritta io e l’ho scritta io apposta per questo, non posso che parlare di un’altra strega, altrettanto magica, altrettanto fuori dagli schemi, quindi a suo modo pericolosa, seppur una strega di altra natura, di quelle che parlano una lingua forse difficile da comprendere per noi umani, come certe formule che si recitano nei sabbah, comunque affascinantissima, esattamente come Lamante, parlo di canzoni, e non solo di canzoni. Il suo nome è Valeria Sturba e il suo album, anch’esso d’esordio, risponde al titolo di Le cose strane, almeno non le si potrà imputare di essere poco pragmatica. Valeria Sturba è un nome noto della scena indipendente, polistrumentista, una delle rare suonatrici di Theremin in circolazione, l’abbiamo addirittura vista al GialappaShow, figuriamoci, e soprattutto l’abbiamo vista scioccare, letteralmente, la giuria di Musicultura, due o tre anni fa, talmente brava e indubbiamente talentuosa da averli spaventati a morte, in una edizione dominata da donne talentuosissime, era il 2022, tra lei, Cassandra Raffaele, Martina Vinci, Iosonorama, oggi Raffica, Isotta e Sara Loreni, ecco a vincere gli Yosh Whale, prescindibilissimi.
Le cose strane ce la regala per la prima volta in veste solista, sgangherata come solo chi non ha nessun bisogno di essere incasellata da qualche parte, o essere riconosciuta a prima vista in quanto volto familiare, può permettersi. Un continuo fare i conti col passato, stiamo parlando di una strega, un modo specularmente opposto a quello di Lamante di ammaliarci, giocando su un volerci rassicurare che, però, alla fine risulta altrettanto inquieto e inquietante. Un disco altrettanto suonato, dove lei, Valeria Sturba, voce flautata, ha fatto quasi tutto da sola, inserendo continui rimandi a una scrittura che sa di tradizione, a volte di deja-vu, sempre e comunque con una personalità talmente portentosa da ergersi in scenari completamente diversi come un Doctor Who che si trova, episodio dopo episodio a fare incursioni in epoche e trame differenti. Star qui a spiegare la musica, quando la musica la si può agilmente ascoltare online, ma andrebbe comunque sostenuta comprandola, sia chiaro, mi risulta, confesso, frustrante, perché credo che Le cose strane, esattamente come In memoria di, meriterebbe ben altro, meriterebbe un perdersi nelle parole, entrando e uscendo dai canoni letterari, forma di mimesi riuscita, in caso, spiazzando il lettore al solo fine di ammaliarlo, affascinarlo, farlo cadere nel proprio incantesimo. Questo facevano, dice la vulgata, le streghe, rosse di capelli, ma né Lamante né Valeria Sturba, specularmente opposte anche nel modo di porsi esteticamente, lo sono, rosse. Sono però streghe che sanno parlarci usando lingue diverse, diverse tra loro e diverse dalla nostra, tenendoci comunque incollati all’ascolto, distratti dalla vita che scorre intorno. Ecco, forse questa è la vera magia, e forse questo è un punto di contatto tra queste due prodigiose artiste che me le ha fatte mettere dentro uno stesso pezzo, sorta di duplex di quando il telefoni fissi forse neanche esistono più: in epoca di distrazione costante, frammentazione spinta, attenzione che si perde dopo pochi secondi, musica comunque onnipresente, ovunque e sempre, loro, Lamante e Valeria Sturba, hanno tirato fuori due album che pretendono ascolto, e come sotto incantesimo non possiamo che assecondarle, distraendoci dalla distrazione imperante, lì fermi immobili a guardarle, mentre danzano per noi.