La metro di Milano è tappezzata di gigantografie di Lenny Kravitz, sessant’anni il 26 maggio, mezzobusto, addominali scolpiti da Jago su lastre di marmo. Presentano l’uscita di Blue Electric Light, nuovo lavoro del nostro, e lo fanno in quella maniera tutta antica che vuole la discografia, quella che brinda col Dom ai numeri folli dello streaming, ricorrere a vecchi concetti pubblicitari tutt’altro che liquidi, cartelloni su cartelloni. Il fatto è che Lenny Kravitz, oggi, potrebbe essere ormai fuori tempo massimo, un quasi sessantenne che prova a fare il giovane passando le giornate a testa in giù a fare flessioni sui social, a beneficio di un pubblico prevalentemente femminile, si sa, che della musica potrebbe esser poco interessato, ben venga metterci una pezza a colori, esattamente equiparabile alle fiancate dei bus elettrici che, sempre a Milano, presentano il volto di Matteo Salvini come a dire “siamo circondati”, volto sorridente, come a dire “fortuna che ci sono io”, volto serio e via discorrendo. Salvini che, per la cronaca di anni ne ha cinquantuno, ma la natura sa essere davvero matrigna, lo cantava il poeta nato dalle mie parti, e buon per lui che non ci fosse in giro uno come Lenny, all’epoca. Nei fatti Blue Electric Light è un album di Lenny Kravitz e la recensione, fosse questa una recensione, si potrebbe serenamente fermare qui. Un album di Lenny Kravitz, chi sa chi sia Lenny Kravitz, e cosa abbia sempre fatto Lenny Kravitz, diciamo dal terzo album in poi, nei primi due stava giocando a sorprendere il mondo, un album di Lenny Kravitz, dicevo che è un concentrato di quanto il rock e la black music abbiano in comune, il tutto mescolato a una quantità decisamente allarmante di mascolinità non tossica, testosterone gettato a secchiate, un talento pazzesco non solo nel cantare, ma anche nel suonare praticamente qualsiasi strumento sia in uno studio di registrazione. Niente di archiviabile sotto la voce “contemporaneità”, quindi, né sotto la voce “sperimentazione”, quanto piuttosto una sorta di carrellata di classici brani alla Lenny Kravitz.
Si passa dal sensualismo marvingayano di brani quali It’s Just Another Fine Day (In This Universe of Love), roba da strappare mutande, durata sei minuti e venti, fancu*o Spotify, al funkeggiamento di brani quali Heaven, sempre intorno ai cinque minuti, la voce che si fa di metallo su una ritmica incalzante, la chitarra a giocare sulle alte contrapposta a un basso assassino, passando per al princismo di un brano come Stuck in the Middle, sospiri che si appoggiano su ritmi apparentemente disarticolati, ritornello con tanto di coro gospel, cinque minuti e undici. Ma fare la cronaca di quel che succede in un album di Lenny Kravitz è quasi imbarazzante, perché tocca star lì a citare tutto quel che corre tra i Beatles, ah, le armonizzazioni, ah, le melodie, e Sly and the Family Stone, ah il ritmo, ah, il funkeggiare, spruzzando il tutto con quanto il campionario del rock, nel senso più ampio e black del termine, preveda. Non che questo non rientri nei doveri del bravo critico musicale, ma star qui, adesso a dire come l’incedere anni Ottanta di Let it Ride sia quanto di più vicino, oggi, possiamo trovare a Anna Stesia di Prince, solo molto meno malinconico e decisamente più carico di valenze sessuali, è quasi sconcertante, anche perché la seguente Bundle of Joy è invece dalle parti di Raspberry Barret, sempre di Prince, stavolta senza grandi stravolgimenti, e star qui a fare la punta al caz*o farebbe di me, che son qui a scrivere, la pancia non troppo floscia, va detta, ma comunque prominente, una sorta de Er Brasiliano, uno che vuole esibire la propria mascolinità, far vedere in sostanza quanto ce l’ha lungo, salvo poi ritrovarsi nei meme ascritto alla voce “caz*o piccolo”. Perché, immagino sia piuttosto evidente, il nuovo lavoro di Lenny Kravitz, Blue Electric Light è un album di Lenny Kravitz fatto esattamente come uno si dovrebbe poter immaginare un album di Lenny Kravitz sia, con tutti gli ingredienti giusti, i soliti, usati con perizia, e anche con tutti i soliti riferimenti giusti, forse giusto un po’ più di Prince del solito, usati anche quelli con perizia e gusto. Niente di nuovo, e per fortuna. Ascoltarlo ti mette su una carica addosso che difficilmente potremmo trovare in musica che abbia insita dentro sé qualcosa di attuale, anche se la constatazione di non essere poi altrettanto aitanti di Lenny Kravitz potrebbe portarci a fare la fine di certi piccoli di uccelli esotici che, salvati da ornitologi nella foresta della Nuova Guinea, si trovano poi a essere cambiati per la mamma dai piccoli, si chiama scientificamente imprinting, col risultato che quei piccoli, crescendo, si crederanno umani. Ecco: nessuno di noi è Lenny Kravitz, sia messo agli atti. Chiudo consigliandone l’ascolto. Stavo per dire l’acquisto, come un Maurizio Costanzo giusto un po’ più alto e vivo, ma quello è.
Se provate a digitare il nome di Lenny Kravitz su Google, ve lo dico così, per chiudere con il giusto grado di simonreynoldsismo queste mie parole, la prima domanda cui Google stesso prova a rispondere è “cosa mangia Lenny Kravitz”, a riprova che sì, gli addominali di Lenny Kravitz incuriosiscono forse più del suono acidulo e sferzante della sua chitarra, della sua voce blueseggiante, del suo modo esaltante di rendere ascoltabile oggi musica che trae le origini nel doppio decennio Sessanta, Settanta. Peccato che solo chi da piccolo guardava gli episodi di Braccio di Ferro può pensare che quella roba lì, che campeggia nei cartelloni pubblicitari che ci umiliano dentro le metro di Milano sia riproducibile solo mettendosi a tavola, la testa più in alto dei piedi. Meglio mirare alla forma di Salvini, quella forse riusciamo a raggiungerla con una buona dieta a base di carboidrati e zuccheri.