Se questa fosse una rubrica, potrebbe chiamarsi “Podcast con diritto di esistere”. Se i podcast di solito sono il dramma dell’intrattenimento contemporaneo, nella loro natura di interviste pallose, mai critiche e spesso scontate, qualcosa per fortuna si salva. Questa è una novità, si chiama Parola di Cash (Qui il link). I padroni di casa sono Ale Cash, imprenditore e creativo di Madhouse, ed Eman Rus, il genio della creazione digitale con la faccia bianca, che ha creato video memorabili con l’intelligenza artificiale, su tutti quello natalizio dei baci tra nemici politici. La differenza nei podcast la fanno i presentatori, ma soprattutto gli ospiti. In questo caso entrambi, ed essendo la puntata pilota si parte col botto: Emiliano Ronchi, in arte “Emi lo Zio”. Un pezzo di storia del rap italiano, senza aver mai rappato in vita sua. Ha ispirato alcune barre epocali dei Club Dogo, e se la gente dice Bella Zio è a causa sua. Ha rubato biciclette, è stato al gabbio, ha cambiato vita. Più di un'intervista, uno spaccato di street life milanese anni Duemila, di storia del rap. Nella seconda puntata si parla di food con “lo chef più burbero della Guida Michelin”, Matteo Fronduti del ristorante Manna di Milano. Con lui si parla di pizza col Patanegra che suda, rutti collettivi, stronzaggine e origini della carbonara. Il risultato? Una figata. Ecco qualche assaggio.

Come è diventato “Lo Zio”, e l'infanzia con Guè e Jake La Furia
“Sono diventato zio a otto anni, per davvero. Mia sorella maggiore ha avuto una figlia quando ero ancora bambino. Jake lo conosco da quando siamo piccoli. Un giorno eravamo in piazza, fame vera, io avevo fame, e lui mi fa: “Oh, ma anche tu devi avere un soprannome, come tutti”. E io: “Ma che cazzo me ne frega a me? Non faccio nemmeno i graffiti!”. Cioè, i tag mi facevano schifo, figurati. Lui: “Eh ma minchia, sei zio, lo dici sempre, ti chiamiamo Lo Zio”. Ma senza “Emi”, solo Lo Zio. E fino ai tredici anni sono stato solo “Lo Zio”. Poi è tornato fuori Emiliano, e sono diventato Emi Lo Zio. Io sono stato lo zio prima di tutti questi finti zii che ci sono in giro adesso. Io sono l’originale, l’unico vero, Emi lo Zio, bella zio!”.“Il fatto è che dietro a una persona simpatica, spesso c’è una storia tremenda. Io ho avuto un’infanzia difficile. Mica per la famiglia, eh, che era bellissima: mamma, papà, sette fratelli e una sorella, tutti uniti, pieni d’amore. Ma eravamo poveri. Poveri sul serio. Sono nato in viale Monza, precisamente in via Tofane 19. Lì c’era il circolo Martesana, quello che c’è ancora adesso, che mia madre gestiva. Quando hanno deciso di vendere la casa popolare in cui abitavamo, che poi l’ha presa quella merda di Paolo Rossi, il comico, mia madre ha fatto domanda per un altro alloggio. La prima casa che le offrono era occupata. Ma lei era comunista vera, una con i valori. Ha detto: Io non tolgo la casa a qualcun altro. E non ha accettato. Gliene offrono un’altra, in Corso Garibaldi: anche quella occupata. Stessa risposta. Allora le propongono un albergo, perché eravamo troppi. Ma per legge non potevano farlo: eravamo una famiglia numerosa. Alla fine, ci offrono una casa in via San Maurilio 8, dietro via Torino. Non era occupata, e ci siamo andati. E lì fuori c’era la scritta Ronchi 78, che sta ancora lì. Noi non avevamo una lira, ma eravamo in centro. Andavamo a scuola con i figli della borghesia. E volevamo essere come loro. C’era anche Cosimo Fini, Guè, in prima elementare con me. Sempre tutti pettinati, firmati. Noi no: sembravamo i “terremotati”, pieni di fratelli, senza soldi, vestiti male. Ci vergognavamo. Ma facevamo finta. Dicevo che il Ronchi 78 era dei miei genitori”.

Zarri, pettinati, alternativi
“C’erano le fazioni. I Pettinati: tutti precisi, firmati. Gli Alternativi: centri sociali, musica punk. E poi c’eravamo noi: gli Zarri. Noi Zarri andavamo nelle piazze dei Pettinati a prendere i motorini. “Mi fai provare il motorino?”. Lo provavi… e spariva. Fine. Avevamo il Garelli Vip 3. A scuola c’era chi veniva con lo scooter truccato, vestito Stone Island, Cp Company. E noi? Rubavamo anche le giacche. La prima volta che ho rubato una giacca avevo dodici anni. Eravamo bambini, ma in quella Milano lì non c’era spazio per essere bambini. Io andavo in discoteca a quindici anni. Facevo il PR. Portavo la gente, facevo le liste. E facevo anche affari: hashish, fumo, pillole. Ci si faceva le canne, ci si sballava. Alle feste in villa, la gente ci chiamava solo per quello. Venite, basta che portate le canne. E i Pettinati? Mica erano santi. C’era la festa della figlia di un imprenditore: siamo entrati, abbiamo rubato gli orologi del padre, buttato i vestiti dal balcone. Nessuno ci diceva niente. Erano gli anni d’oro, ma anche gli anni della giungla”.

L'arresto, gli spari nel locale
“Poi è arrivata la notte del 2001. Avevo ventun anni. Due giorni di festa, completamente fuori di testa. C’era un PR del mio gruppo, cinese, si chiamava Janai. Non lo volevano far entrare in un locale: È ubriaco, dicevano. Ma non era vero. Mi puzza, diceva il tipo alla porta. Io, di fronte a ‘sta discriminazione, gli ho detto: Ma cosa fai, mi spari?. E lui: Se non te ne vai ti sparo. Io gli rispondo: No, ti sparo io. Sono tornato a casa, ho preso la pistola di mio cognato, che era registrata. Se non lo fosse stata, mi beccavo anni pesanti: fino al giorno prima era considerata arma da guerra. L’ho presa, sono tornato al locale. E ho sparato. Il locale era già chiuso, pieno di sbirri. Mi hanno arrestato, pestato. Ma non ho mai fatto il nome di nessuno. Ho pagato tutto io. Ho fatto la galera. Ho pagato anche le spese legali, senza chiedere un euro a nessuno. Jake venne all’udienza. C’erano tipo 200 persone fuori. Mi ha anche dedicato una strofa, una canzone”.
La galera fa schifo
“La malavita non è una figata, eh. È una rottura di coglioni. In totale ho fatto quasi tre anni tra articoli micidiali, San Vittore, porte sbattute in faccia. Meglio che quindici, certo, ma quando esci ti senti un coglione. Hai buttato via del tempo della tua vita per dimostrare un cazzo a nessuno. Non serve a niente. La galera, raga, non serve a un cazzo. Non educa, non migliora, non ti dà nulla. Come dici tu, può capitare nella vita, tra le varie stronzate, di sbagliare e finirci. Ma cercarla, quella roba lì, no. Non mi sento neanche di dirti che ho fatto la galera come se fosse un trofeo. No, è stata una puttanata. Perché uno è stato beccato, tutto lì. Io la penso così. Non mi sento una vittima del sistema, non racconto quella roba lì. Mi sento di dire che è stata una grossa minchiata, e ho buttato via degli anni della mia vita. Però, oh, i soldi li ho sempre fatti”. La malavita piace ancora tantissimo, ma cosa direbbe oggi Emi lo Zio a un diciottenne che vuole fare la mala? “Guarda, secondo me le parole finiscono dopo due minuti. Appena mi dice: Oh bro, no ma io l’ho killato, lo prendo a schiaffi”.

Vida Loca dei Club Dogo, dedicata a Emi
“Il 2001 è l’anno dei Club Dogo. Il carcere, i Club Dogo e Vida Loca, con la citazione “Come si sta là dentro, fra?”. Credo che Mi Fist sia del 2001 o del 2002, adesso non ricordo esattamente. Io il giorno che sono entrato in galera era il 2 febbraio, e il 3 febbraio Jake ha scritto Vida Loca. Quella è stata la prima canzone che parlava di me, è la prima canzone in cui c'è Emiliano dentro. È la più grande hit di Mi Fist. Uno di quei pezzi che, quando lo fanno nei concerti tipo a San Siro, si accendono tutti. Come Albachiara di Vasco. La cantano a squarciagola anche quelli che in quegli anni erano bambini, o manco c’erano. È un pezzo che ha qualcosa di celebrativo, sì, ma anche di personale. Parla della mia amicizia con Jake, e di quando mi hanno tolto la libertà. Perché lui l’ha scritta fuori, mentre io ero dentro San Vittore. E quella canzone, fra, è un capolavoro. Lì si dice proprio: La Vida Loca è malata, la gente lo sa ma ne è innamorata, va dal madama fino al pusher di strada. Io ero in carcere quando lui l’ha scritta, ma ovviamente non c’era modo di farmela sentire. Allora, tramite un colloquio, mi aveva mandato il testo scritto su un foglio. Minchia, l’ho letto… e lì mi sono emozionato. Ma in carcere non è che puoi far vedere troppo le emozioni. Devi stare in una certa modalità”.
La libertà, e i video dei Dogo con le armi
“Dopo che esco di galera, tramite un amico di mio padre riesco a uscire un po’ prima dagli arresti domiciliari. Mi arrangio: vado a lavorare per Metro, il giornale gratuito. Mi ricordo bene, facevo il giro con il furgone di Metro. Ma intanto che facevo quella roba, ero riuscito a prendere anche un locale all’Idroscalo. Adesso si chiama Le Jardin, ma prima si chiamava 1057. Quindi facevo i giornali di giorno, e il locale di sera per fare altre cose. I Dogo, all’epoca, non avevano nemmeno i soldi per comprarsi gli strumenti. Quindi cosa facevo io? Quando andavano a suonare nei centri sociali, gli portavo io l’impianto, capito? Gli portavo l’impianto. Loro tutti vestiti larghi da rapper, io in camicia con le iniziali, vestito bene. Alla fine ho fatto tutto quello che serviva per supportare un progetto. Come no. Ho prodotto anche i video, perché le etichette non volevano sganciare una lira. G mess. E sai che c’è? È fighissimo. Bellissimo. Mi ricordo il video di Bosseggiando di Guè. Sai cos'è successo? Non ci danno i fondi. Allora chiamo Gino di Rozzano, bravo Gino, e chiamo un po’ di gente. Con tremila euro ho fatto atterrare un elicottero nella mia cascina. Lo guidavo io. Se guardi il video, lo vedi: è la mia cascina. Cavalli, macchine, armi. Minchia, finiamo di girare il video, esce. Dopo una settimana, il pomeriggio alle 14, l’ora in cui uscivano i video: boom, pubblicato. La mattina alle 4:00, mi entra in casa la polizia coi carabinieri incappucciati. Cercavano le armi, perché avevano capito che erano vere. Ma le armi non erano vere. M’hanno smontato casa. Un culo che non finiva più. Io gli ho detto: Ragazzi, ma intanto il cinema è finzione. E poi non c’era niente. L’elicottero era vero, la Lamborghini era vera, la K47 era finta. E poi vi dico una cosa. Ormai sono passati degli anni, ma dai. Se io faccio un video con delle armi vere, e poi me le tengo davvero in casa, allora sono scemo”.

"Quale 20 al grammo, zio manda"
“Solo per registrare il ritornello: erano le piazze nei ‘90 piene di canne bianca / avevo le tasche gonfie ma un cazzo in banca / erba da chi tornava dall’Olanda / sono 20 al grammo… Quale 20 al grammo, zio, manda!, c’ho messo quattro ore e mezza. A un certo punto Don Joe mi ha guardato e mi fa: Adesso lo facciamo a pezzettini, sennò te ne vai fuori dal cazzo e non lo fai. Perché io, diciamolo, non so cantare. E comunque, anche dietro a quella barra lì, c’è una storia. Un aneddoto vero. Praticamente, c’era questo amico di un amico di un amico, neanche mi ricordo il nome, un conoscente alla lontana. È stato il primo a portare la charas a Milano. Si mangiavano gli ovuli di charas. Per chi non lo sapesse, la charas è un tipo di fumo, un concentrato resinoso che si grattava via a mano dalla pianta. Una bomba. Adesso magari fa ridere, ma ai tempi la charas era il top. Se avevi quella, a Milano te la sucavano tutti. Neanche la super skunk reggeva il confronto. Era la regina. Arrivava una volta al mese. Alla T, la tabaccheria che c’era alle Colonne di San Lorenzo. Questo qua arrivava, e noi, per accaparrarci un giro a credito, facevamo il campout. Aspettavamo il giorno prima. Prendevamo i soldi in settimana, così quando arrivava ci dava lo sfinghello. Era morbido, tipo masticabile. Lo dividevamo in gruppo. Una volta avevamo venduto tutto lo sfingherlo da 5g e ci mancava il cilum per noi. Allora gli faccio: Zio, dacci un cilum per noi, che poi era una grammata. E lui: Adesso è 20 al grammo. E io: Ma quale 20 al grammo, zio, manda! E da lì nasce quel verso. Quale 20 al grammo, zio, manda! Tutto per un cilum di charas. E che charas, tra l’altro. Era un fumo che ti spegneva. Io facevo il tiro e diventavo completamente bongoloide. Occhi a cinese veri.
Chef Fronduti, la carbonara e i rutti
Con Matteo Fronduti si passa dal rap alle recensioni. Il cliente avrà anche sempre ragione, dipende dai punti di vista: “Se uno scrive che ha mangiato poco, è vero. È vero perché è entrato e ha ordinato solo un piatto di pasta. Anche quello che mi scrive che sono uno stronzo ha ragione. Perché sarà sicuramente successo qualcosa che mi ha fatto tirare fuori la stronzaggine. Comunque non tutti possono essere miei clienti. Io ho 42 sedie, e a Milano ci sono milioni di persone”. Sulle cene con intrattenimento, è lo chef a lasciare la recensione: “Come un rutto collettivo. Un rutto che produce fatturato. È abominevole? Si, ma a volte l'abominio funziona. La gente vuole quella roba lì, fare la fazzolettata che nemmeno al Castello delle Cerimonie, con la spinning pizza che gira e pagare 100 euro per la pizza sottile col Pata Negra che suda. Che questo sia il futuro della ristorazione o che sia innovazione la vedo durissima”. E c'è anche l'argomento più discusso al mondo: la carbonara. “La storia dice che la prima carbonara è stata fatta con la razione K degli americani. Quindi con la polvere di uovo liofilizzata, la double cream e il bacon della colazione”.

