Parte il nuovo programma di Michele Wad Caporosso sul canale YouTube di M2o, una via di mezzo tra la televisione, la radio e il podcast. Exxxclusive, questo il nome della creatura, parte col botto. Nerone a fare da spalla al presentatore, ospiti Shablo, Guè e Tormento. Un'ora e più di chiacchierata sulla storia del rap, italiano e mondiale. Ma si parla anche di calcio, di arte, di Marina Abramovic e della banana di Cattelan (non in quel senso, please). E cosa c'entra Kanye West con Vittorio Feltri? Scopriamolo. Che voto merita la cultura hip hop in Italia nel 2025, in termini di conoscenza, memoria storica, capacità di riconoscere le radici? Qualcuno direbbe zero, altri sette. “Ladi dadi, we like to party”, una citazione che ha il sapore di un’epoca lontana, presa da un brano del 1986, e che Guè ha ripreso in un pezzo con Rose Villain. Ma chi, oggi, conosce davvero l’origine di queste citazioni? Chi sa da dove vengono? Nemmeno chi le cita, a volte. Eppure è proprio questa la bellezza della cultura hip hop: la citazione, il rimando, il campionamento. Il rap vive di connessioni tra presente e passato, di omaggi mascherati da versi, di riferimenti che chi sa, coglie. Ma oggi è ancora così? “Una volta c’era più voglia di andare a riscoprire cosa era successo prima”, dice Tormento, “Forse anche troppa. Sembrava quasi un dovere. Oggi, al contrario, i giovani sembrano meno interessati. Ma qualcosa sta cambiando”. Una nuova generazione di mezzo, fatta da artisti come Shablo, Guè e lo stesso Tormento, continua a riproporre suoni e riferimenti del passato, a un pubblico che man mano si fa più adulto. “Forse stiamo migliorando – dicono – magari non è più un 4. Forse 5 e mezzo”. Il podcast si svolge all’interno di uno dei luoghi simbolo del nuovo fermento artistico italiano: il Moysa. A parlarne per primo a Wad fu Damiano dei Maneskin, raccontandolo come una “figata pazzesca”. E in effetti, il Moysa è un hub creativo che sembra uscito da un documentario sulla scena musicale europea: studi di registrazione, sale prova, club, uffici, ristorante, tutto pensato per gli artisti, aperto ogni giorno dalle 9 del mattino alle 4 di notte. Come dice Shablo: “È un posto dove la creatività può fluire liberamente, dove gli artisti si incontrano in modo naturale, una vera casa per chi fa musica”. E qui, ovviamente, ci hanno registrato tutti. “Anche ieri sera è nata una super hit”, ammettono tra una battuta e l’altra. Ma per loro, che hanno girato studi in tutta Italia e nel mondo, cosa rende davvero uno studio speciale? Guè: “Ce ne sono alcuni incredibili, a livelli che qui ancora sogniamo. ma ci sono anche i posti più improbabili, quelli brutti, che però hanno un’anima”. Tormento ricorda con affetto il Bips di Milano, dove i Sottotono incisero il primo album: “Un buco, ma carico di storia”. E poi ci sono gli armadi di casa, i primi studi improvvisati, le camerette trasformate in sale d’incisione. “Io ho registrato dentro armadi”, ride Guè. Il primo step è sempre la cameretta , dicono, ma se lo studio ti fa sentire a casa, “Alllora è quello giusto”.

Parlando di campionamenti e diritti d'autore, nel 2025 riuscire a sbloccare un campione grosso è diventato un’impresa titanica. L’editoria musicale è un labirinto complicatissimo, tra eredi, diritti, firme e approvazioni. “Dover parlare con sette eredi di quello che aveva il campione prima, avere un sample importante oggi su un tuo disco è un superflex. È come avere la collana nella canzone”. In fondo il rap nasce da lì, dal campionamento, anche se un tempo era una pratica molto meno dichiarata. “Una volta si usavano di più, si dichiaravano di meno. Oggi è il contrario: appena lo usi, ti bussano alla porta”. Ma oggi è peggio di ieri? In un certo senso sì. Se prima doveva partire una causa, ora sono gli algoritmi a rilevare automaticamente i sample. “Ci sono app che ti sgamano il campione, e se ti va male, ti bloccano direttamente il pezzo. Non ti avvisano nemmeno: te lo tolgono e basta. E poi tocca a te dimostrare che eri in buona fede”. Una guerra preventiva digitale. E anche quando va bene, il prezzo è salato. “Più il campione è famoso, più la percentuale che devi cedere è alta: si parte da un minimo del 60-70%, ma ho visto anche casi in cui si arriva al 100%. Cioè, tu fai il pezzo e non guadagni niente”. È il caso di “Bornaby”, dove, tra Tony Braxton e l’autore italiano, l’80% dei diritti era già andato. E poi c’è “Gelosa”, quella hit clamorosa con Guè. “Ha fatto grandi numeri – raccontano – ma a livello editoriale non è tornato molto, perché il ritornello riprendeva un brano storico”. È un tema complesso, quello del publishing. Qualche tempo fa, un discografico newyorkese con una società editoriale l’ha detto chiaro: “In Italia non riuscite a fare business con la musica. Non vi piace guadagnare”. Come se il sistema italiano avesse un’avversione per la monetizzazione corretta del lavoro creativo. E un po’ è vero: “Siamo indietro sul publishing e sul diritto d’autore. Ora le nuove generazioni iniziano a capirlo, ma per tanti anni è stato ignorato. Anch’io ho capito davvero come funziona solo dopo i trent’anni”. Un mondo complicato, sì, ma affascinante. E che va ben oltre l’artista: riguarda autori e compositori. “Con Torme stiamo lavorando su questo – dice Shablo – lui è un artista ma anche un grande autore, e sta scrivendo per altri. Ma mancano autori competenti, soprattutto nell’urban, sia per rapper che per cantanti”. L’esperienza aiuta: “Io ho sempre studiato anche la parte melodica e cantata, e questo mi ha dato una marcia in più”. Tormento conferma: “Noi eravamo già editori con Area Cronica nel ’96. Ma oggi è tutto diverso. Ci sono più possibilità, anche per chi scrive per altri. Una volta era difficile piazzare i brani. Oggi consiglio sempre agli artisti di iniziare a capire cos’è la SIAE, le società di collecting, tutto il mondo dei diritti. Perché magari a vent’anni firmi un contratto importante e non gestisci il tuo publishing. E allora quei guadagni, a chi vanno?”. La risposta è semplice: a chi è stato più furbo di te. “Oltre al diritto d’autore ci sono i diritti connessi e quelli editoriali. Sono entrate fondamentali, che si accumulano nel tempo. Non è solo ‘faccio il pezzo e poi faccio le date’. Ci sono guadagni paralleli che, se gestiti bene, fanno la differenza”. E oggi, nella scala dei ricavi di un artista, quali sono le entrate principali? “Sicuramente i live restano centrali, ma il publishing può diventare anche superiore. È un mix: oggi devi avere tutto sotto controllo”.

Dicevamo: qual è il miglior pezzo, il miglior trattamento di un sample? Chi è riuscito a coglierlo al volo? Parliamo di campioni storici. Guè cita un nome impopolare, però secondo lui ha avuto la sua fase da grande campionatore: Kanye West. "Se si può ancora dire, anche Puff Daddy. La prima cosa che viene in mente è proprio il mondo Bad Boy. Lui ha costruito una serie di successi sui sample, anche non dichiarati. Tipo “I'll Be Missing You” dei Police, di Sting. All’inizio non lo dichiararono, poi furono costretti ovviamente a pagare. E ancora oggi si dice che paghi tipo 5.000 dollari al giorno, una roba del genere. Dicono sia un meme, raga... però magari è vero". Poi Sting, tra l’altro, che oltre a suonare e a campionare, come ricorda Nerone, "Si dice che scopi per 18 ore e prenda 5.000 dollari al giorno. Io ho visto un documentario dove Sting diceva che, sotto Lsd, ha aiutato a partorire una mucca. Fa tutto, raga. Tutto". Ma la roba migliore che fa è prendere quei 5.000 al giorno. "Poi ci sta pure che aiuti le mucche a partorire, col grano che gli entra dappertutto. Non vai neanche più in studio: vai in fattoria, ti metti i guanti e via". Poi c'è stata anche l’epoca, negli ultimi anni, molto inglese, del campionamento. Il campionamento fatto male, tipo quello della drill. Campionano roba recente, bruttissima, spiegano gli ospiti. Tipo hit recenti, magari col cantato, e ci mettono il beat sopra. Se tu prendi già una hit recente e ci metti solo una batteria, il pubblico manco sa che quella è una hit di dieci anni fa, magari. Prendere una hit recente invece è facile, ma il bello è riscoprire una hit che è totalmente fuori dai radar, nata in un altro momento storico, con un altro linguaggio. È quasi un processo alchemico: prendi una cosa e la trasformi totalmente. La mossa para-culo giusta è stata quella di Doja di Central Cee. con “Let Me Blow Ya Mind”: il campionamento early 200s sta tornando di brutto. È difficile andare oltre i vent’anni per campionare. Quando vai oltre, diventa sempre più difficile renderlo figo. Negli anni ’90 si campionava roba degli anni ’70. Oggi siamo nel 2025: si campiona roba del 2000. Però se campioni roba dell’85 vuol dire che il producer ha 65 anni. Ma anche i vestiti, eh. Tutti baggy adesso. Fino all’altro ieri tutti skinny, che non si poteva manco scoreggiare. Adesso sono tutti sbragati. Però si campiona poco in Italia, dal rap italiano. Ci sono pochissimi casi. I Dogo lo fecero anni fa, quando campionarono i Sangue Misto in “Campioni Sospetti”. Lo ricantarono, fecero tipo un rework. C’era anche Deda, che l’aveva approvato.

Poi c'è la questione dei soldi, il cash, che oggi ritorna nella maggior parte dei testi rap e trap. Gli anni '80 hanno visto l'emergere di rapper come Rakim, uno dei nomi più credibili della scena hip-hop americana. Rakim, già all'epoca, lanciava un messaggio chiaro con il suo celebre "I need money", una frase che sintetizzava la realtà di chi faceva musica per vivere, per guadagnare, per arrivare a un pubblico. In una delle sue canzoni parlava dei “dead presidents”, ovvero le banconote, come simbolo tangibile del successo economico. La domanda che sorge, però, è: quanto ci ha messo l'Italia a comprendere che il rap, oltre ad essere una forma di espressione artistica, può anche essere una fonte di guadagno? In realtà, ce ne abbiamo messo parecchio, e lo conferma Guè, che ricorda i tempi in cui i membri dei Sottotono venivano fortemente criticati per aver osato parlare di soldi nel rap. Per molti anni, in Italia, parlare di soldi nella musica rap è stato visto come una sorta di peccato. I rapper venivano etichettati come “materialisti” o, peggio, “mercenari”. Tormento riflette sul fatto che la scena era già pronta a un cambiamento, che all'epoca sembrava impensabile, ma che oggi è diventato la norma: il bisogno di "dimostrare ce l'ho fatta" era un tema ricorrente, una spinta che, alla fine, avrebbe portato il rap italiano ad essere riconosciuto anche come una strada per il successo materiale. La contraddizione di tutto questo, secondo Tormento, è che, se da un lato il rap è sempre stato visto come uno strumento di protesta e resistenza, dall'altro in Italia è sempre stato complicato parlare apertamente di soldi. In molti contesti, la ricchezza è sempre stata un tabù, e il guadagno economico derivante dalla musica è stato spesso oggetto di critiche. Una mentalità che, a distanza di anni, è ancora presente. Tormento lo conferma, affermando che, nonostante oggi ci siano rapper che guadagnano cifre importanti, parlare di soldi nel rap italiano non è ancora del tutto accettato. Quando si parla di soldi guadagnati con la musica, il pensiero va subito a come il rap sia riuscito a trasformare un hobby o una passione in una vera e propria carriera. Shablo ricorda con nostalgia i primi anni in cui i rapper italiani andavano a New York con gli zaini vuoti, pronti a fare acquisti che, a quell'epoca, sembravano inarrivabili. Non solo vinili, che erano un vero e proprio tesoro in un’Italia in cui l’accesso alla musica.

Visti gli ospiti, non si può non parlare di rapstar. Il rapper più forte di tutti? Tormento spara un Travis Scott, odiato da Guè. Ma non è l'unico: “Playboy Carti lo prenderei a sberle tutto il giorno”, spara il fondatore dei Dogo, per poi passare a Ye: “Parliamone. C'è un nuovo disco di Kanye West, si può sentire solo dal sito vedendo un cortometraggio di mer*a. A me rompono i cogli*ni per tutto, e lui può mettere le svastiche. Quand'è che posso fare sto switch? Vorrei arrivare anch'io a fare completamente quello che voglio”. Tornando i nomi, continua Guè, “Sono tutti artisti alla Feltri. Hai visto cos'ha detto Feltri su Lacerenza? Viva le tr*ie, viva le putt*ne. Giustamente. Poi un conto è dire viva le tr*ie, un conto è mettere robe antisemite, le svastiche. Io ho sempre detto che Kanye era un cogli*ne, e avevo ragione. Come fai oggi a dire ancora che è il più grande? Dai bro, non puoi. Nella mia top tre di odiati di sono Kanye West, Marina Abramovic e Travis Scott”. Sull'arte contemporanea è d'accordo anche Shablo: “Mi hanno spostato un sacco di volte nei musei perché ero dentro l'opera e non me ne ero reso conto. Come il tizio che ha mangiato la banana di Cattelan. Non capisco come possano vendere quella roba ignobile a un sacco di soldi”. Come si sia passati da Kanye West all'arte concettuale attraverso Feltri, lo si può spiegare soltanto con il fatto che, in fondo, il focus dei podcast è il cazzeggio. Ogni tanto però, come in questo caso, viene fuori un viaggione.
