Cosa accomuna Matteo Renzi ed Elly Schlein? Il buon gusto in fatto di donne, ma con una differenza di fondo. L’uno preferisce le femmes fatale alla Elena Muti, mentre l’altra la bellezza apollinea e spirituale della Maria Ferres: una bellezza casta, scevra delle debolezze della carne. Perché sottolineiamo questo dettaglio? Perché la nuova leader dei Giovani Democratici, Virginia Libero, è un esempio perfetto di questa bellezza casta, metamorfosi finale dell’estetica femminile tipica del Partito Democratico e almeno un po’, ci ricorda una giovane Giorgia Meloni in versione figlia dei fiori. Ma facciamo un po' di ordine.

Come le dita di un pianista percorrono i tasti di un clavicembalo sino a raggiungere l’Ut gaudioso, i vari sponsor politici hanno portato all’esordio le figure chiave del panorama femminile dell’Ulivo prima e poi del Pd. Negli anni novanta e nei primi duemila, in piena epoca berlusconiana, la Democrazia Cristiana implodeva come l’impero asburgico, frammentandosi disordinata in tutto l’arco politico. Frammenti di donne cattoliche e democratiche – come la mitologica Rosy Bindi – reduci dagli anni Ottanta, votate a Gesù Cristo e alla democrazia, prendevano forma tra i palazzi del potere sotto l’egida del “mortazza” Romano Prodi. Erano gli anni dell’Ulivo, il cui colore dei frutti ricorda molto quello delle giacche in tweed indossate dai suoi esponenti. Uno stile austero, da madre severa e mortificante, quello delle varie Debora Serracchiani, Anna Finocchiaro e Barbara Pollastrini, tutte esordite in pose di pathos femminista e polemico, ma pur sempre casto di madri invincibili. La morale non poteva essere inquinata dalla carne, e la rettitudine assoluta pareva l’unica arma da schierare contro quell’esercito di stempiati con la camicia azzurra e femmes fatale irresistibili, l’esercito di uomini e fimmine della televisione capitanati dal Satana laico, Silvio Berlusconi.

La stessa oscurità regnava nell’era del primo Pd, quello di Veltroni e Bersani, due personaggi dalla parlata lenta e noiosa. Qui, però, alcuni barlumi di luminosità iniziavano a fare capolino dietro alle nubi del moralismo democratico. Qualche residuo di Ulivo persisteva, certo. Si veda la figura di Cecilia D’Elia, tipico esemplare di traumatica e severissima professoressa di matematica. Dopo di lei, però, si apriva il cielo e fluiva un po’ di luce sulla terra martoriata con le varie Pina Picierno, Simona Bonafé e Marianna Madia, femmine dalla bellezza tipica della moglie che soffre per aver scoperto il tradimento del marito con una ventenne in cerca di emozioni forti. Ma pur sempre una bellezza relegata nella famiglia tradizionale. La rivoluzione sessuale del Pd è stata indubbiamente inaugurata da Matteo Renzi, che ha innescato un processo di ricircolo magmatico ancora in atto, proiettando nei cuori di tutti la potenza erotica di Maria Elena Boschi, toscana come il suo capo, dallo sguardo vitreo, capello chiaro e fisico sinuoso. Donna clessidra e contraltare della rivale Barbara Carfagna, suo doppelgänger moro in chiave forzista.

Periodo d’oro quello di Renzi al Pd, con l’introduzione del concetto di “quota rosa”, niente più che l’istituzionalizzazione della prassi già adottata da Silvio Berlusconi, che accoglieva fiumi di giovani segretarie e politicanti attirandosi le ire di chi avrebbe voluto essere al suo posto. Dopo Renzi, nulla poteva essere di più in fatto di bellezza. Il confine tra Pd e Forza Italia si stava lacerando pericolosamente. Allora, dalla Francia tornò Enrico Letta per distruggere quanto edificato da Renzi. Toccato il fondo, finalmente, giungiamo all’odierno regno estetico, quello dell’armocromia di Elly Schlein. Se Renzi è stata la Glasnost della gnacchera democratica, la Schlein è la sua Perestrojka: non c’è cambiamento senza trasparenza e non vi è trasparenza senza cambiamento. Come ogni rivoluzione che si rispetti, le cose devono tornare a come stavano prima di ogni deviazione. Bisogna tornare ai colori e alla bellezza delle figlie dei fiori. Bisogna tornare all’emancipazione sessuale tanto reclamata nel ’68 e dai campus americani. Serve un nuovo Vietnam – Gaza pare la guerra perfetta – e un esercito di ragazze che protestino accampate in tenda, che facciano all’amore al di là della famiglia tradizionale, non necessariamente in stanze in affitto a ottocento euro al mese a Milano o Bologna, e che siano politiche di professione. Bisogna ripartire dalla bellezza delle donne universitarie, e quale città poteva essere più perfetta se non Padova?

Virginia Libero, nuova guida dei Giovani Democratici, è il prodotto di questo processo. Laureata in Giurisprudenza nell’antica università veneta, sopravvissuta agli spritz della Padania orientale, fa politica da più di dieci anni, da quando era ancora minorenne. Da rappresentante d’istituto al liceo sino a segretaria nazionale della gioventù democratica. Una bellezza spirituale più che carnale, più simile a una Maria Ferres decattolicizzata, più genuina di chi l’ha preceduta, Caterina Cerroni, prima donna a capo dei Gd. La lezione di Renzi ha dato i suoi frutti, e questi sono stati raccolti da Schlein, che pur valutando tutti i parametri per individuare la figura adatta alla missione, ha capito che la nuova generazione dev’essere donna e, possibilmente, somigliante al nemico numero uno: la premier.
