Innanzitutto esprimo la mia compassione umana per Filippo Facci, che fino a due secondi fa stimavo (e per questo esprimo comprensione umana per me stesso). “Allora torna in Africa” ha risposto a una persona che non concordava, dandogli del “monnezza”, meravigliosa figura portata sullo schermo da Tomas Milian, ma che evidentemente il Facci prende per un insulto, alla sua presa di posizione su Twitter: “Il festival della canzone italiana non può essere vinto da uno che non canta italiano. Ci vuole tanto?”. Ora, potremmo aprire un civile dibattito sulla lingua italiana che in realtà non esiste, non è neanche post-unitaria, è stata inventata dalla Rai – radiotelevisione – e non è una “lingua”, non ne possiede proprio i requisiti, è un dialetto moderno buono a tenere appiccicati diversi popoli, per motivi politici, e che non ha mai, dico mai, donato testi letterari “classici”, che sono tutti invece in un qualche dialetto. Ma a uno, come Filippo Facci, che usa il termine “torna in Africa”, dopo, come ho fatto, avere dato la mia umana comprensione per i problemi economici (li ho anche io, come tanti) che lo portano a esprimersi come il peggiore leghista d’antan, dopo la zattera di salvataggio, il contratto per scrivere su Il Giornale, che gli ha lanciato Angelucci che, a “cafonautesimo”, non ha nulla ma proprio nulla da invidiare a Geolier (avete visto le foto con gli occhiali scuri e le supercar? Sono davvero, ma davvero inquietanti. Che poi sia un ex barelliere è proprio da commedia all’italiana), ecco, dopo l’umana comprensione, preferirei non aprire nessun dibattito ma darmi proprio al body-shaming più spinto.
Dice di essere nato “nella terra di Sinner” e non in quella di Geolier, dice di “vergognarsi della musica napoletana”. Adesso, queste “opinioni”, legittime, è bene che si sappia che arrivano da una struttura fisiognomica (mi riferisco agli studi di Lombroso) neandertaliana, ma con una parrucca stile Ken di Barbie, una sorta di uomo primitivo (non mi stupiscono, adesso, le frasi in difesa al “potente” Ignazio La Russa, e in difesa del “figlio del potente”, Apache La Russa, accusato di stupro: “La ragazza di 22 anni era indubbiamente fatta di cocaina prima di essere fatta anche da Leonardo Apache La Russa”, appaiono da cavernicolo, da cavernicolo scrivente con la parrucca di Ken, un Kenandertaliano diciamo, in cui è l’uomo che “si fa” la donna).
Aggiungerei anche una riflessione: c’è un non so che di uomo delle pietre in questi ragazzi che si “ammassano su una donna come cani” (la frase è stata detta a proposito dello stupro di Palermo), e anche una certa sessualità protomomessuale esclusivamente “ambientale”, in cui la visione di altri membri eretti, o di schizzi che potrebbero partire verso traiettorie incalcolabili, non vengono percepiti con repulsione eterosessuale, ma accettati come una forma di omosessualità rurale, preistorica, animalesca, lo stesso tipo di omosessualità che si riscontrava tra i contadini e i cacciatori dei secoli passati, o tra i soldati delle legioni, l’amicizia virile “intramoenia”, senza penetrazione ma con strusciamento all’interno delle cosce. Ecco, da qualche minuto, di questo mi sa, questo lombardo nato altoatesino – dice lui – come Sinner. Il che, ai miei occhi di vichingo certificato dall’albero genealogico, me lo fa apparire come un residuo di tempi andati, come schiuma dell’evoluzione, dimentico o ignorante, della dominazione normanna al sud, libera da un certo prognatismo antropologicamente salviniano, un grugnismo da valli bergamasche quasi. La mia non è una tirata contro la Lega. Apprezzo, e l’ho scritto, l’Autonomia differenziata. La mia, come quella di Filippo Facci, è una sorta di repulsione verso i tipi umani che fisiognomicamente hanno qualcosa che rimanda a epoche superate, come Facci, come Salvini, come Angelucci.
Non si tratta, ovviamente di “diversità”, benedetta dagli angeli e alla quale dovremmo inchinarci, come, che ne so, la sindrome di down, ma proprio di una “perfetta” e manifesta genetica, di una vera e propria manifestazione antropologica che si esprime nei tratti, nei gesti, negli occhiali da sole, nelle pettinature, nelle supercar, nei grugni, nella salivazione, di fronte alle quali le manifestazioni cafone dei napoletani sono acqua di rose, delicatissime esagerazioni lievemente kitsch.
Manifesto ancora la mia pietas nei confronti di chi è rimasto indietro nell’evoluzione. Naturalmente, la mia è una opinione antropologica, come quella di Facci sui napoletani-africani. Soltanto che, a guardarlo nella faccia di minchia (termine sdoganato da Fiorello durante la consegna del tapiro e rivolto a John Travolta) è il suo viso e il suo grugno ad apparirmi “africani”, non come insulto, ma come luogo di nascita dell’homo sapiens, al quale dubito, adesso, che Facci possa appartenere, laddove invece molti africani ne sono fulgidi esempi.