La scrittrice Alessandra Sarchi nel suo romanzo, pubblicato da Einaudi Stile Libero, dal titolo Il dono di Antonia nel 2020, affronta da un punto di vista emozionale il percorso di una donna che ha una figlia adolescente, Anna, che da qualche tempo ha problemi di alimentazione. Poi, un giorno, arriva la telefonata di un ragazzo americano e con lui il passato torna a galla. È Jessie, nato dall’ovulo che ventisei anni prima Antonia aveva donato a un’amica che non poteva diventare madre. Lei di quella nascita non aveva più saputo nulla. Anzi, aveva cercato solo di tenere a bada il ricordo di quel suo gesto solidale. Sarchi, che si dichiara a favore della gestazione per altri (Gpa) solo a determinate condizioni molto restrittive ci ha inviato questi due brevi estratti dal suo libro: “Scomponi la madre. Toglile il corpo. Le braccia in cui rifugiarti per essere stretta e compresa. Il petto al quale appoggiarti e regolare al suo battito il tuo. Lo spazio fra il collo e la clavicola dove respirare odore di casa”. E poi ancora: “Scomponi la figlia. Scomponi il figlio. Il volto che rugoso e coperto di una sottile cera biancastra ti è stato accostato, ancora caldo dei tuoi stessi umori, del tuo stesso sangue, di te che lo contenevi”. Le abbiamo fatto alcune domande non solo su questo argomento, ma anche sulle nuove figure genitoriali e l'importanza dell'inclusione nel contesto familiare. Ecco tutto quello che ci ha raccontato.
Perché hai scelto di cominciare l’intervista da questi due frammenti del tuo libro?
In questi due passaggi è contenuto un invito alla riflessione. Cos’è la maternità oggi? Nel mio romanzo Il dono di Antonia, lei si trova a gestire la complessità di una situazione possibile: un ‘figlio’ nato altrove, da un altro grembo ma dal suo ovulo, e una figlia nata e cresciuta da lei e dal marito in una famiglia tradizionale. Jessie la cerca perché vuole sapere da chi proviene geneticamente per parte femminile, e ne ha tutto il diritto. Antonia, da parte sua, si trova spiazzata, lacerata da dubbi e sensi di colpa. La sua è una maternità che si scompone, si rimodula, si ricompone, si perde per poi ritrovarsi moltiplicata.
A quali risposte arriva la protagonista del tuo romanzo?
A un certo punto Antonia capisce che generare significa lasciar andare. Non trattenere a sé l’altro come fosse qualcuno che ci appartiene in virtù di un legame solo genetico. Ma prima affronta un percorso lacerante dentro si sé e si fa molte domande. Il suo rapporto con Anna la figlia anoressica, è stato forse troppo stretto, avvinghiante. Il romanzo, più che fornire risposte, apre questi interrogativi: cosa significa essere madri oggi? Cosa significa essere figli oggi?
Tu come Alessandra Sarchi che ne pensi?
Che è molto difficile tracciare una linea di confine fra ciò che è un accadimento biologico o ha contiguità con esso e ciò che invece è acquisizione di costume, pratica culturale che nel tempo si è modellata su questo accadimento. Il concetto stesso di maternità e quello di paternità sono cambiati nel corso dei decenni. Anzi, alcune culture sin dall’antichità sono portatrici di altri modelli di famiglia. La sacralizzazione del ruolo di madre, come la viviamo in Occidente, non è l’unico modello possibile.
Chi è oggi per te una madre?
Una persona che si prende cura del figlio/a e lo fa con l’obiettivo di renderla una persona autonoma in modo che si possa autodeterminare, scegliere per sé, avere un proprio pensiero. Penso a una madre come donna solo perché io lo sono, ma credo che anche gli uomini possano esprimere forme di maternità.
Quindi anche un uomo può essere madre?
Il concetto di maternità è cambiato nel corso della storia. La donna madre è sempre stata una figura sotto assedio per via del suo potere procreativo. Pensiamo solo all’allattamento, oggi fortemente consigliato per le sue virtù nutritive e di protezione: sin dal Medioevo, però, alle donne agiate veniva sconsigliato. Non per motivi estetici ma per preservare la loro fertilità. Anche così si esercitava controllo sul corpo femminile. La riappropriazione della maternità da parte della donna è un fenomeno relativamente recente, cominciato con la rivendicazione della scelta di procreare o meno: dagli anticoncezionali all’aborto legale, dalla scelta di allattare o meno.
Sei a favore della maternità surrogata?
Prima di tutto non mi piace questa parola. Perché è una definizione fuorviante che rimanda a una creatura ‘originale’ non surrogata. Il termine giusto è ‘gestazione per altri’. Pur non avendo ancora le idee chiare su questo argomento mi sento di dire che in alcune casi, a determinate e restrittive condizioni, questa sia una strada percorribile.
A quali condizioni?
Qualora sussistesse un rapporto di fratellanza, amicizia, sorellanza fra la portatrice e i genitori intenzionali, qualora la parte economica diventasse solo un rimborso di spese mediche, qualora alla donna fosse garantito il diritto fino all’ultimo, con il parto, di cambiare idea. Altra condizione: che ci siano leggi che consentano la possibilità di contatto e rapporto fra figli e genitori biologici, fondamentale anche per motivi di malattia. I soggetti coinvolti possono essere fino a cinque: i due genitori intenzionali, la portatrice, i due donatori di ovulo e gameti. Tutti dovrebbero essere coinvolti con una sorta di contratto di condivisione di responsabilità.
Per arrivare a questo?
Manca una legislazione. Non mi riferisco solo all’Italia dove non c’è proprio. Ma a una legislazione comune a tutti i Paesi, almeno in Europa, che sia molto restrittiva. Come quella presente nel Regno Unito. Il fenomeno del turismo procreativo si contrasta con le leggi. C’è una propaganda che vuol far credere che siano soprattutto le coppie Arcobaleno a ricorrere a questo tipo di maternità ma non è vero. In gran parte sono coppie eterosessuali. In ogni caso oggi non possiamo far finta di non vedere che la nostra comunità è espressione di componenti diverse.
Hai intervistato un donatore di gameti e ne hai parlato in un articolo su La lettura del Corriere della Sera nel 2020: che cosa ti ha dato quell’incontro?
Una prospettiva diversa. Partorire è una cosa ancora femminile e su questo non ci piove. Ma, come dicevo prima, il concetto di maternità sta cambiando. Dovesse mai verificarsi in futuro l’ipotesi di embrioni che crescano in un utero artificiale cosa succederebbe? Verrebbero a mancare anche la paternità e la maternità in senso biologico. Dobbiamo tracciare delle linee di confine inviolabili sin da ora.
Che cosa è inviolabile?
La qualità delle relazioni fra le persone. Ci devono essere amore e vicinanza. Io non nego il fatto cruciale del parto, che appartiene alla donna. E’ un’esperienza unica ma non ti rende una madre. Tanto che ci sono madri che partoriscono e lasciano i figli in adozione. Se ci mettiamo in una logica di relazione ci apriamo invece a un sistema di condivisione già esistente in altre culture. Alla coralità di famiglie non mononucleari. Senza l’ossessione della genitorialità.
La gestazione per altri secondo te può andare a svantaggio della pratica dell’adozione?
È una considerazione da fare. Andrebbe incentivata anche la pratica dell’adozione. Entrambe, gestazione per altri e adozione, prevedono un esborso di soldi non indifferente. Personalmente, se non avessi potuto avere figli, credo avrei adottato. Ma ci sono persone che non sono in grado di farsi carico delle problematiche dovute a un’adozione. Chi adotta eredita una serie di problemi davanti ai quali può anche dire: non ce la faccio.
Torniamo alla domanda inziale: ti sei mai chiesta quali sarebbero state le tue emozioni durante un parto per altri?
Difficile rispondere. Gravidanza e parto sono esperienze molto personali. Possono essere traumatiche e di rifiuto anche nel caso di un figlio geneticamente tuo. Per lo stesso motivo una portatrice potrebbe invece desiderare di tenere quel neonato generato con ovulo e gamete altrui. Questa sua libertà dovrebbe valere ed essere contemplata fino all’ultimo.
E i genitori intenzionali a quel punto che farebbero, dopo aver firmato contratti e pagato le spese?
È un rischio che dovrebbero accettare.
Prima di chiudere l’intervista Alessandra aggiunge un’ulteriore riflessione: "Stiamo facendo i conti senza l’oste. Bisognerebbe far parlare i bambini che sono nati con la Gpa. Sia in famiglie etero che omo. Diverse famiglie Arcobaleno ci mostrano ogni giorno che questi bambini stanno bene perché sono amati. Non esistono solo i diritti dei genitori ma anche quelli dei figli. Spesso noi dimentichiamo questo aspetto".