“Cara Mira, io ad Acca Larentia ho militato. Lei ha il coraggio di lamentarsi delle critiche, degli attacchi, che le hanno fatto anche tanta pubblicità. Ma forse valeva mazzi di fiori per quelle robacce che ha scritto?”. È l’attacco di Francesco Storace a Valentina Mira (analogo a quello di Francesco Borgonovo su La Verità), finalista al Premio Strega 2024 con il suo Dalla stessa parte mi troverai. Mira, a proposito dei fatti di Acca Larentia (dove due estremisti di sinistra uccisero due militanti neofascisti del Fronte della gioventù, mentre un terzo venne ucciso negli scontri che seguirono con la polizia), ha scritto che quelli “Sono anni in cui succede. Sono anni in cui loro sono i primi ad ammazzare. Carnefici; qualche volta, come ora, vittime”. “Loro” sono i “neri”, quegli anni, i Settanta, dove la tensione aveva raggiunto vette mai viste. Ma a Francesco Storace non sono piaciute le parole di Mira: “Gli anni di piombo li ho vissuti – a differenza sua – so cosa voglia dire salvare la pelle”, scrive Storace, “Invece, il 7 gennaio 1978 non furono fortunati i ragazzi che lei oltraggia”. Un’offesa alla memoria, quindi, quella di Valentina Mira, la quale, prosegue il giornalista su Libero, scrive senza sapere “nulla della loro vita, dell’umiltà delle loro famiglie, della dignità con cui affrontavano la militanza politica”. Anzi, la colpa sarebbe solo e unicamente dei carnefici, dato che questi ultimi “non tolleravano la presenza di una generazione di destra in città. Proprio lì dove vivevano operai e impiegati”. Anni in cui la propria incolumità e la militanza si escludevano vicendevolmente: “No, in quel quartiere eravamo ragazzi del Msi che ogni giorno mettevano a repentaglio la vita”.
“Del resto lo sai, se frequenti certi ambienti, che puoi morire. Che sei Romolo oppure Remo”, ha scritto Mira. Storace, da parte sua, fa ancora una volta appello alla sua esperienza personale da ex militante: “Per ‘difenderti’ dovevi prendere quell’astuccio di occhiali Ray-Ban che andavano di moda, impugnarlo come fosse una pistola, incurvare le gambe e fingere di essere pronto a sparare per far scappare gli aspiranti carnefici”. A dire la verità, la scrittrice non sembra negare la violenza da ambo le parti. Semmai, la differenza sta nella dismisura tra le due: superiore, suggerisce la finalista allo Strega, la matrice “nera” delle carneficine. Non ci sta Storace: “Chissà se le hanno mai raccontato le storie di chi per la militanza attiva in un quartiere rosso, si vedeva bruciare l’automobile a duecento metri dal commissariato di polizia e incendiare la casa con i propri congiunti dentro, rischiando la fine dei fratelli Mattei. Carnefici anche loro?”. In chiusura, Francesco Storace ricorda la difficoltà (mai nascosta) nel definirsi antifascista: “Quei giovani (i morti di Acca Larentia, nda) morirono in nome dell’antifascismo militante. Ecco perché è così difficile dirsi antifascisti quando vedevi morire ammazzati quelli che erano i tuoi camerati”. Gli anni di piombo sono una fase della storia italiana ancora non digerita dal nostro Paese. Quella violenza, che venne entrambe le parti, ancora (e pericolosamente) chiamata in causa con superficialità. Eppure, il dubbio che certe ombre nere fossero più lunghe delle altre rimane. E di fronte a una guerra senza regole la vergogna reclamata finisce per essere retorica.