Il fascismo dapprima, quindi nel suo momento aurorale, si è espresso in forma di farsa, mettendo così in discussione gli antichi, gozzaniani, salotti di tristemente luttuosi mogano e passamanerie, frantumando il passato con i martelli da carrozzeria di Maranello. Salvo poi ripresentarsi in forma di tragedia politica identitaria. Forse con le modestissime opportunità offerte dal governo Meloni al suo Minculpop già accampato nel “bunker” di Colle Oppio, in Roma. Lì il ritratto di Filippo Tommaso Marinetti. È facilmente intuibile che si trovi nella stessa quadreria, non meno destinata ai lari Corneliu Codreanu, Léon Dégrelle e Julius Evola; quest’ultimo tuttavia ritenuto “iettatore” dai camerati dirimpettai della cosiddetta destra sociale, questi ultimi assai meno interessati ad accendere la “julleucheter”, cioè la lanterna di Yule, cara alle Ss di Himmler, in occasione dei solstizi stagionali, magari subito dopo la pizzata nei locali non meno identitari del quartiere Trieste di Roma, a un passo da Villa Torlonia, trascorsa residenza familiare del duce. Mai però dimenticare un occhio di riguardo nazionale, nazionalistico e autarchico all’inventore del Futurismo, appunto l’inarrivabile, il versatile, il geniale Marinetti. Lo stesso di cui lo scettico capitolino Petrolini, sebbene in possesso come Pirandello della “cimice” del Pnf nell’asola della giacca, definirà “un cretino con lampi di imbecillità”. Ingiuria che Ftm. avrà modo di far virare antagonisticamente verso il “marinaro d’Italia” Gabriele D’Annunzio.
Bene, quando i politici in blazer “Davide Cenci”, attualmente al governo, esaltano l’imminente taglio del nastro tricolore di una “grande e necessaria” mostra dedicata al Futurismo e ai suoi protagonisti, sembrano affermare esplicitamente che “il fascismo è bello”. Almeno secondo un’idea pavloviana dei sinonimi. Autoclave e portineria ideologiche nostrane. In verità, l’estetica del Futurismo con la loro vocazione fieristica da arengario c’entra davvero poco, quasi nulla. Irrilevante perfino ricordare che il geniale in orbace, nonché infine Accademico d’Italia, Filippo Tommaso, ormai fisicamente malconcio, nel 1944, in pieno declino mortuario di Salò, volle partecipare da combattente, volontario ciclista e poi alpino, alla tormentosa campagna di Russia. In quei giorni tragicamente coperti di neve gelata, oltre a offrire al suo pubblico letterario un’opera dal titolo “Camicie nere e poeti futuristi combattenti a Sviniuca sul Don 12 settembre 1942”, altrettanto, con spirito da sacrestano invasato, compilerà “L’Aeropoema di Gesù”. Ma questo forse i compagni di cordata di “Giorgia” lo ignorano. Il Marinetti che sceglie infatti di sfidare nella burrasca “l’Idra rossa del bolscevismo”, sentendo prossima la fine, detta alla moglie Benedetta un possibile testamento spirituale ai piedi del crocefisso. Il futurista già anticlericale e mangiapreti, il titano che agognava testualmente la “svaticanizzazione” dell’Italia, nell’ormai teratologico inverno del 1944 si rivolge non ai tubi di scappamento bensì Cristo. Un coronamento di spine di una carriera che inquadra un riavvicinamento, forse anche dolente, ai cilici della religione cattolica.
Il Futurismo dunque potrebbe essere solo un pretesto per tacere su matrici impronunciabili, così come, da parte d’altri dirimpettai più estremisti dell’attuale premier, l’aver dato nome Casapound alla tavernetta nera. Non è l’autore de “I Cantos” che si celebra, semmai, implicitamente, il vero o presunto collaborazionista del Reich “millenario” ficcato dentro una gabbia dall'esercito degli Alleati liberatori dal nazi-fascismo. Giorgia Meloni e i suoi, forse, se potessero, dedicherebbero con altrettanto entusiasmo una trionfale retrospettiva a Leni Riefenstahl. D’altronde, se non fosse chiaro, nazismo e fascismo significano innanzitutto ai loro occhi un esempio di vera eleganza, accompagnata da una timbrica visiva ideale che va dall’antracite al “total black”, quel nero nibelungico che nello Stivale diventa Pantone Predappio. Porta calze non meno velate di scuro con cucitura dietro, diversamente dai comunisti che occorre invece immaginare in calzettoni corti con bordino rosso di tessuto sintetico; volete mettere la differenza di stile e classe? La mostra dedicata al Futurismo vive dunque sotto la signoria del più erotico revanscismo, la filologia c’entra poco, così come il Manifesto del movimento fondato nel 1909 con parole gagliarde e sfrontate contro i secoli già segnati dal mogano e dalle lampade d’alabastro che riflettevano fiocamente la luce. Principi a tutti noti che letterariamente avanzano con queste parole assertive: “Noi vogliamo cantare l'amor del pericolo, l'abitudine all'energia e alla temerità. Il coraggio, l'audacia, la ribellione, saranno elementi essenziali della nostra poesia. La letteratura esaltò fino ad oggi l'immobilità pensosa, l'estasi ed il sonno. Noi vogliamo esaltare il movimento aggressivo, l'insonnia febbrile, il passo di corsa, il salto mortale, lo schiaffo ed il pugno. Noi affermiamo che la magnificenza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova: la bellezza della velocità. Un automobile da corsa col suo cofano adorno di grossi tubi simili a serpenti dall'alito esplosivo... un automobile ruggente, che sembra correre sulla mitraglia…”. Non stupisca il maschile riferito alle vetture (un automobile), giunge probabilmente proprio dalla prosa marinettiana la volontà di Giorgia Meloni d’essere “Il presidente” e non, l’assai più flebile e poco virile, “La presidente”. E abbiamo così sciolto ogni dubbio sul rifiuto del gender e dell’inaccettabile subcultura Lgbtq+ da parte di Fratelli d’Italia e delle sorelle Meloni.
Si dice “Zang Tumb Tuuum” per intendere “Boia chi molla”? E forse perfino, andando oltre Balla, Boccioni, Russolo, Sant’Elia, anche il progetto di “rallegramento dell’universo” dell’ondata futurista successiva che mostra in prima fila Depero, Prampolini e nuovamente Balla, non è altro che un possibile Campo Hobbit, accompagnato da queste altre parole. “Noi futuristi vogliamo realizzare questa fusione totale per ricostruire l’universo rallegrandolo, cioè ricreandolo integralmente. Daremo scheletro e carne all’invisibile, all’impalpabile, all’imponderabile, all’impercettibile. Troveremo degli equivalenti astratti di tutte le forme e di tutti gli elementi dell’universo, poi li combineremo insieme, secondo i capricci della nostra ispirazione, per formare dei complessi plastici che metteremo in moto”. Pronunciando così c’è subito modo di intuire altrettanto i volti di La Russa, Fazzolari, Mollicone, Lollobrigida, Santanchè, Donzelli, Del Mastro, Montaruli, Rauti (Isabella), e, a seguire, i Buttafuoco e i Bocchino… Si è detto già che nell’intimo potrebbero essere fasci? Dunque pavlovianamente, ritengono che Futurismo sia sinonimo di amato regime, bene rifugio, termocoperta identitaria in nome della ritrovata Nazione, riverbero di un caro solo in apparenza trascorso slogan da tracciare sui muri unitamente all’ascia dipenne di Ordine Nuovo, alla runa di Avanguardia Nazionale e all’onnicomprensiva celtica che Alemanno porta al collo: “Fascismo Europa Rivoluzione!”. Si sappia che la storica del Futurismo, Claudia Salaris, ha negato il patrocinio alla mostra che vede nel comitato scientifico Osho, i suoi meme pubblicati su “Il Tempo” e mostrati nel salotto di Bruno Vespa sembrano avere sostituito il fotodinamismo di un cane al guinzaglio, per citare un’opera di Giacomo Balla. Irrilevante provare a dire che proprio la critica d’arte “di sinistra” ha operato per il recupero del Futurismo e ancora di Céline e dello stesso Ezra Pound.
Nel frattempo, per sortilegio della mobilia di mogano mai rassegnata a finire nei magazzini della storia, leggiamo che la mostra vive la traversia di un “budget ridotto, prestiti ritirati, curatori in fuga o costretti al silenzio”. L’evento pensato dall’ex ministro Sangiuliano, che sta per aprirsi alla Gnam di Roma, sarà in forma minore. Scrive ancora la storica Mirella Serri su La Repubblica: “Con più di seicento opere, era stata annunciata circa un anno fa come la più grande rassegna mai vista dedicata al futurismo. L’esposizione ‘Il Tempo del futurismo’, che aprirà i battenti alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma il 2 dicembre (la data ha subito uno slittamento), all’origine fu congegnata come un frutto della rivoluzione culturale di ottobre del governo di destra-centro, voluta dall’ex ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano e dalla premier Giorgia Meloni. Dal MoMA non arriverà nessuna tela, i collezionisti italiani stanno mandando poco. Sangiuliano quando aveva ideato la mostra voleva dare una spallata alla cosiddetta egemonia culturale della sinistra? L’assunto era che nel secondo dopoguerra c’era stata una damnatio memoriae dell’avanguardia futurista. Cosa assolutamente falsa. I primi a riscoprire a metà degli anni Cinquanta gli scritti di Marinetti e le opere pittoriche dei grandi maestri futuristi furono i ‘sinistri’ Edoardo Sanguineti, Maurizio Calvesi ed Enrico Crispolti, seguiti da una lunga schiera di studiosi progressisti”. Il misterioso, o magari misterico, lungo graffio verticale inciso sulla fronte dell’ex ministro Gennaro Sangiuliano presumibilmente da mano femminile, per la sua immediata emblematicità, dovrebbe figurare nelle locandine dell’esposizione surclassando l’iconico “Pugno di Boccioni”, da sempre ritenuto la firma certificata del movimento che ci apprestiamo a ritrovare.