Non è certo una novità che volti noti del mondo dello spettacolo e della musica diventino ambassador di qualche brand e che ce li ritroviamo in mille pubblicità e spot su qualsiasi rete o dispositivo. Cosa c'è di male? Sicuramente niente, anzi, spesso si compra un prodotto perché lo si abbina al volto famoso o semplicemente a una pubblicità bella che ci ha colpito, e diciamolo, che ormai le pubblicità sono quasi più belle di alcuni spettacoli che ci propongono, in 15 o 30 secondi o anche in un minuto sono in grado di farci ridere, emozionare, o anche far detestare prodotto e musichette annesse... ma adesso arrivo al punto. Proprio perché ultimamente per seguire vari programmi passo ore davanti alla tv, noto gradualmente un paradosso non indifferente sui marchi storici italiani e chi li rappresenta. Gucci a pieno tema (con tanto di canzone) “Flowers” di Miley Cyrus, Dolce e Gabbana per la caleidoscopia Katy Perry, mentre a noi italiani cosa resta del made in Italy? Lo spot, seppur divertente e carino, ma... del McDonald's con protagonista Achille Lauro. Insomma siamo diventati letterlamente il fast-food di noi stessi e della musica italiana. Ma, colpo di scena, Achille Lauro definisce cosa è un “must” e con una pubblicità parallela a quella che vediamo sempre in tv lancia un'operazione di marketing su felpe ed accessori brandizzati Mc Donald's che portano la sua firma e il suo design.
Da sfilate di alta moda al fast food, il ponte tra due mondi che all'apparenza non si incontrerebbero. Questa è la caratteristica che conferma che la musica e i volti stessi del settore siano quelli più richiesti, che hanno il vero potere di catalizzare l'attenzione su quello che vogliono e come vogliono. Il punto è che un cantante oggi ha anche la responsabilità di cosa sponsorizza, perché lo fa, che messaggio trasmette e le stesse scelte che vengono fatte dai brand rappresentano o cercano di conciliare il personaggio con il prodotto, un esempio? Ricordiamo come la Pantene non aveva più voluto la Ferragni dopo lo scandalo del pandoro gate. Ma se la responsabilità degli artisti è rappresentare e pubblicizzare qualcosa che a loro piace (o almeno si spera che sia così) perché la maggior parte dei brand italiani più famosi e richiesti al mondo sceglie sempre volti internazionali e non punta su chi realmente è italiano? Non esistono artisti o volti italiani che rappresentano questi prodotti? Non si possono doppiare in una lingua normale (e che non sia sempre con accento francese) dei profumi che non sono nemmeno francesi? Dobbiamo pubblicizzare il caffé Kimbo in rappresentanza della napoletanità e di Napoli con “Anema e Core” di Serena Brancale che invece è orgogliosamente pugliese? O continuare a essere rappresentati da George Clooney per la Nespresso? Sono domande e riflessioni che probabilmente molti fanno quando cercano di capire quali siano le scelte dietro ad alcuni prodotti e come vengano usati gli artisti stessi in quanto a loro volta prodotti, adattabili a prescindere dal loro credo originario e dalla loro idea. E non è solo questione di “Dio denaro”, ma di distrazione di massa e confusione e accettazione al tempo stesso sul fatto che tutto ormai sia solo vendibile e acquistabile a prescindere da quanto sia veritiero il modo in cui ci viene proposto, ci facciamo prendere in giro anche da ciò che è innegabilmente visibile. Ecco perché se non vogliamo iniziare a modificare i programmi che guardiamo ed educare il pubblico rispetto a quello che è più di qualità, dovremmo iniziare dalle pubblicità che paradossalmente durano più di qualsiasi altra cosa e diventano messaggi, sigle impresse nel nostro inconscio che continuano a condizionarci, dalla canzone di sottofondo, allo slogan, al logo. Pubblicizziamo la musica con la pubblicità e viceversa, ma scegliamola nel modo giusto così da farci trasmettere inconsciamente qualcosa di utile.
