Compito della filosofia, si sa, non è fornire risposte ma insegnare a far bene le domande e leggendo l’ultima opera della scrittrice-filosofa Michela Marzano “Sto ancora aspettando che qualcuno mi chieda scusa” (premio speciale della giuria per il titolo più passivo-aggressivo della storia) vengono da chiedersi molte cose. Intanto: di che razza di testo si tratta? Non un saggio (come pare vorrebbe essere in certi tratti), non un pamphlet, sicuramente non un romanzo ma neanche l’ennesima iterazione della sempre più logora “autofiction”. Piuttosto: 288 pagine che si accumulano attorno all’esegesi di una delle parole oggi più di moda, quel ‘consenso’ di cui tanto si parla e che culminano, appunto, nella richiesta estrema di scuse da parte della società maschilista e patriarcale. Protagonista del libro è Anna (‘senza H’ come ci tiene a precisare l’autrice: forse per parafrasare la serie Netflix Anna dai capelli rossi il cui titolo originale è Anne with an E?) ma che di fatto ha ben poche cose in comune con l’eroina che ha popolato la nostra infanzia, orfana e vittima di violenza del patrigno. Anna senza H è infatti il ritratto del privilegio, nata in una famiglia borghese, ha appreso il francese grazie alla nonna e a 20 anni è fuggita a Parigi non per fare la cameriera o la commessa ma per inseguire il sogno di fare la giornalista, dopo aver abbandonato quello di attrice al centro sperimentale di cinema. Un privilegio talmente smaccato da risultare inconsapevole, tanto che Anna senza H invece di godersi la vita è profondamente turbata, intimamente sofferente. E cosa turba la nostra mancata cineasta, ora giovane speranza del giornalismo italiano d’oltralpe? Il costo dell’affitto? Il precariato? Le rate del mutuo? Nessuna di queste facezie. La nostra eroina, piuttosto, è segnata dai “si” pronunciati controvoglia, dai ‘no’ riferiti in modo poco assertivo e ignorati da quei provoloni dei maschi. La sua vita è un affastellarsi di situazioni ‘grigie’: prima a scuola, poi al lavoro, poi con ex mariti e fidanzati che si susseguono incessantemente (Parigi, si sa, è un città godereccia). Il problema è che accanto a situazioni in cui sono descritti reati precisi - e pure gravi - ne troviamo altre non solo giuridicamente irrilevanti ma dove bisogna avere molta fantasia per immaginarsi vittime. Il racconto delle molestie subite da un professore alle medie - un pedofilo di fatto - o quello che la ‘sopravvissuta’ Liz fa della terribile coppia Epstein-Ghislaine (che di loro si è però tenuta i costosi regali) si alternano al resoconto delle prime esperienze sessuali di Anna senza H nella Ville Lumière (‘quando Daniele è andato a prendere un preservativo stavo per dirgli qualcosa, ma poi era tornato ed ero rimasta zitta, chissenefrega, dai, avevo pensato, è solo per stasera’) o con tirate moraleggianti (“Accettare significa aderire. Ma se invece di accettare io permetto, di che sorta di adesione si tratta? Aderisco oppure sopporto? E se sopporto acconsento oppure cedo? E se cedo, che tipo di consenso è mai questo?”) che più che a sottili speculazioni filosofiche assomigliano piuttosto a seghe mentali. È questa la fragilità principale del libro, e a ben vedere non solo del libro, ma di tutta la retorica che da anni vediamo rimontare ad ogni caso di cronaca (e poi subito scemare, perché l’obiettivo, si sa, non è mica ottenere riforme concrete utili a tutte le donne, quanto fare il pieno di visibilità per meglio vendere i propri prodotti): gridare “al lupo al lupo” anche quando il lupo non c’è, col risultato che quando poi il lupo arriva per davvero siamo incapaci di riconoscerlo, perché stravolte da decine di falsi allarmi. Un conto è il grigio, un altro è il nero: e buttare nello stesso minestrone entrambi ha come unico esito quello di banalizzare la parola ‘abuso’, a discapito delle sue forme più gravi, come lo stupro. Il #MeToo e la sua nascita del resto rappresentano un esempio emblematico di come la tendenza ad allargare la coperta di categorie giuridiche abbia portato ad esiti controversi. E su questo tema ci permettiamo un appunto alla scrittrice-filosofa, che a furia di insegnare nelle aule dell’Università più prestigiosa del mondo si è forse dimenticata l’importanza di fare bene i compiti a casa.
Nel libro della Marzano la nascita del #MetTo è identificata con l’affaire Weinstein scoppiato nell’estate 2017; peccato che le cose siano molte diverse e molto, molto più complicate. A beneficio della scrittrice-filosofa, di chi ha comprato il suo libro e dei lettori di MOW, offriamo allora - in forma gratuita - un’utile integrazione. Altro che 2017: l’origine del #metoo risale al 23 giugno 1972, quando il Congresso americano approvò il “Title IX” - iconica vittoria del femminismo anni settanta - che stabiliva come nessuna persona potesse essere esclusa o discriminata in qualsiasi programma scolastico a causa del proprio genere. La svolta avviene il 15 marzo del 2011, quando la studentessa Alexandra Brodsky e altre quindici donne vittime di stupri denunciano l’Università di Yale proprio sulla base del “Title IX”. È un fatto clamoroso: per la prima volta si sostiene che l’Università, fallendo nell’offrire alle proprie studentesse un ambiente sicuro, le avrebbe di fatto discriminate e fosse quindi co-responsabile di violenza sessuale. Sulla scorta di questo esempio, la denuncia sulla base del “Title IX” si diffonde come il morbillo, perché come il morbillo è diffusa la piaga degli stupri nei campus. E siccome nella lista dei college coinvolti molti appartengono alla famosa Ivy League, il problema sale all’attenzione dei massimi livelli della politica a stelle e strisce. Nel 2011 viene stabilito che tutte le Università che non riusciranno a garantire un’efficace applicazione del “Title IX” per casi di violenze sessuali smetteranno di ricevere qualunque tipo di sovvenzione statale.
Insomma: se prima le Università, davanti a un’accusa di stupro, potevano sfangarla affidandosi alla giustizia ordinaria, ora sono obbligate ad un controllo preventivo pena l’ingresso nella black list. Ma entrare nella black list vuol dire perdere gli studenti che richiedono i mutui federali, che a sua volta vorrebbe dire veder crollare i propri iscritti. Per questo, i college iniziano ad applicare il “Title IX” sulla base di un particolare e sbrigativo principio giuridico, quello della “Preponderance of the evidence”, che nel sistema anglosassone è un criterio alternativo sia a quello del “Beyond a Reasoable Doubt” (“oltre ogni ragionevole dubbio”) usato nei casi penali, sia a quello del “clear and convicing evidence” (“chiara e convincente prova”) usato nei processi civili. Si tratta di un terremoto: da quel momento, chi viene accusato di aver commesso uno stupro in un campus subisce due procedimenti, uno a cura della Giustizia ordinaria, basato sul criterio della prova “oltre ogni ragionevole dubbio”, un altro interno, gestito dal college, basato sul concetto di prova “preponderante”. Mentre i dati ufficiali del Dipartimento di Giustizia parlano di 6 casi di violenze sessuali ogni mille studenti, dal 2011 in poi le denunce aumentano nell’ordine di centinaia; denunce che, tuttavia, vengono sempre inoltrate presso il college e in misura minore presso le autorità giudiziarie, dove l’esito delle indagini è più incerto: sono parecchie le Università citate in giudizio da parte di studenti maschi espulsi perché condannati per violenza sessuale dalla giustizia del college ma scagionati da quella ufficiale. In questo scenario conflittuale, le Università si inventano regolamenti come quello della Northwestern University in cui sono vietati esplicitamente rapporti sessuali tra due persone adulte “in condizioni di potere differente”. Sulla base di questa dottrina, nel 2014, il capitano della squadra di basket di Yale, Jack Montague, viene espulso a seguito di un’accusa di stupro mossagli dall’ex fidanzata. Un anno dopo la fine del loro rapporto, la donna denuncia ai vertici dell’Università – ma non alla polizia - che il suo consenso non fosse “libero” ma influenzato dall’importante ruolo che Montague ricopriva nell’ambiente universitario. Non tutto il mondo accademico, tuttavia, è disposto ad accettare una svolta che puzza di caccia alle streghe lontano un miglio. Nel 2015, i professori di Harvard Jacob Gersen e Jeannie Suk scrivono sul California Law Review come l’applicazione del “Title IX” basata sulla preponderanza della prova abbia sancito la nascita di “un apparato burocratico” che “vigila e controlla la sessualità di liberi cittadini”. Lo stesso anno, Laura Kipnis docente della Northwestern, pubblica un saggio affermando il diritto delle donne maggiorenni a scegliere liberamente con chi avere rapporti sessuali. Per la Kipnis, se Obama avesse voluto fare qualcosa per risolvere la piaga degli stupri avrebbe dovuto bandire le “frats”, le associazioni studentesche maschili coinvolte ripetutamente in fatti di violenza sessuale. Ma eliminare le “frats” avrebbe voluto dire toccare strutture sociali potentissime, alla base del sistema lobbistico con cui è organizzato il potere negli Stati Uniti. Obama avrebbe quindi optato per una soluzione cerchiobottista, scaricando tutto sulle singole Università. Ed è in questo clima lacerato e intossicato ideologicamente che nel 2017 il New York Times e il New Yorker, tirando in ballo il Title IX, si occupano di Weinstein; ma le sacrosante accuse contro un uomo che ha fatto della violenza sulle donne il proprio marchio di fabbrica diventano il pretesto affinché il principio della preponderanza della prova venga contrabbandato oltre i college americani, estendendosi all’ambito cinematografico, poi all’intera società civile, e infine abbattendosi come un tornado sul resto del mondo, che del criterio della “preponderance of evidence” e del Title IX non sa assolutamente nulla. Si dice che il #metoo “È finito in una bolla di sapone”, che ha portato solo ad assoluzioni, l’ultima quella di Kevin Spacey. Ma a sgonfiarsi non è stato un fantomatico movimento per i diritti delle donne (quello non è mai esistito): è piuttosto crollato un principio giuridico grottesco, che poteva funzionare nel piccolo dei campus americani (un mondo a parte, come i fatti successivi alla strage di Hamas del 7 ottobre hanno confermato) ma che certo non poteva avere diritto di cittadinanza nelle democrazie liberali occidentali fondate sul criterio della presunzione di innocenza. A conclusione di questa (lunga) recensione, resta comunque una grande domanda filosofica: cara scrittrice-filosofa, ma come fa a scrivere un libro che vorrebbe essere di approfondimento senza prima approfondire? E come fa il suo editore a pubblicarglielo? Ripasseremo umilmente Platone e Aristotele in cerca di una risposta.