Visualizzate l’eroe americano, biondo e con i baffi: si chiama Hulk Hogan. Considerate poi il nemico, un “heel”, che può essere André the Giant o The Rock. Nel frattempo, appare sulla scena un essere intermedio. “Stone Cold” Steve Austin è l’esempio perfetto. Adesso avete, a grandi linee, una storyline. A margine, qualcuno che si esibisce, magari Aretha Franklin. Magari al Madison Square Garden. Se poi arriva Donald Trump a dare qualche schiaffone anche meglio. Bene. Prendete tutto questo, mettetelo in centrifuga e distribuitelo via televisione: ecco la Wwe di Vince McMahon. Miliardario, promoter, padre rivedibile, lottatore. Presunto stupratore. Nel mondo del wrestling c’è un prima e un dopo McMahon, nessuno può negarlo. E dal documentario Netflix Mr. McMahon questo risulta chiaro, nel bene e nel male. Spesso, a dirla tutta, nel male. Ma guardare la Wwe di trent’anni fa con gli occhi di oggi ha poco senso. Quelle lotte, le provocazioni e l’uso spregiudicato di ciò che può creare scandalo ormai sono lontane dalla sensibilità del pubblico contemporaneo. Al tempo, però, le cose erano diverse. Gli Stati Uniti cominciano l’operazione militare in Iraq? Nessun problema, sul ring salirà qualcuno vestito da soldato iracheno, ovviamente il cattivo della storia. Perché questa è l’unica coordinata morale di McMahon: “Simply business”, nient’altro. La cosa che sorprende (ma nemmeno così tanto a pensarci bene) è che nessuno degli intervistati che hanno fatto parte della Wwe mette in dubbio la legittimità di un simile approccio. Non ci sono razzismo, xenofobia, nepotismo, favoritismi: quello che McMahon ha fatto lo ha fatto per la sua azienda. E i contratti li pagava lui, dunque meglio tacere.
Se un discorso morale, come abbiano detto, non trova spazio nel mondo dell’entertainment, i tribunali possono spostare la partita su un altro piano. Perché la Wwe ha dovuto affrontare diversi processi nel corso degli anni. Prima gli steroidi (McMahon era stato accusato di aver indotto gli atleti a farne uso), poi gli abusi sui minori e sulle donne che avvenivano dietro le quinte. Infine, l’attacco diretto all'ideatore di Wrestlemania. E da questa prospettiva, quella su un uomo accusato di molestie sessuali, ogni episodio e ogni parola pronunciata da Mr.McMahon hanno un effetto diverso. L’uomo disposto a tutto, persino di creare una storyline (mai realizzata) in cui avrebbe dovuto mettere incinta sua figlia, diventa l’uomo che si prende ciò che vuole con la forza. Oltre, forse, i confini della legge. Il processo è ancora in corso e le sedie degli intervistati si sono svuotate: no comment, per ora. Ma cosa resta, come recita una delle ultime domande, dell’eredità di Vince McMahon? “Il più grande promoter di tutti i tempi”, dice qualcuno. E poi? Nessuno si ritiene adatto a rispondere, né John Cena, né The Undertaker. E nemmeno Hulk Hogan. Alla fine, quella del creatore del wrestling moderno è una storia che punta solo a rimanere presente, mai passata e nemmeno rivolta a futuro. Un congegno che deve essere alimentato in continuazione, senza pause, dotato di un meccanismo lineare ma che non permette distrazioni: gli occhi su ciò che accade nel mondo, sulla sensibilità del pubblico che cambia. Mutare sempre per rimanere uguali a se stessi. Semplice. Perché tutto è “Simply business”.