“La vita segreta delle città” (Django Music/Glory Hole Records) è il nuovo album di Murubutu, niente meno che un concept-album nell’epoca di quello streaming che ha sensibilmente diminuito la durata media di un pezzo pop. Murubutu – Alessio Mariani, da Reggio Emilia –, il poeta laureato della scena urban italiana. Il rapper letterato (e prolifico) che non è sicuro al cento percento di quanti album abbia fatto uscire finora: “Ehm, devo controllare su Spotify, devo capire come sono stati categorizzati un paio di lavori. Questo, in ogni modo, dovrebbe essere il disco numero sette”. Prodotto a più mani (nei crediti i nomi di Goedi, DJ Fastcut, Gian Flores e James Logan) e fitto di ospiti (fra cui Davide Shorty, Alborosie, Erica Mou, Danno), l’album suona come un piacevolissimo mattone. È denso, non te lo ingolli tutto d’un fiato. Però ci torni su e ci torni su ancora. Perché provoca, stuzzica; allarma, persino. E diverte.
Nel tuo racconto le città sono organismi viventi. Stanno soffrendo, in questo momento, le città di cui narri?
Mah, ho raccontato città molto diverse. Alcune reali, altre surreali, altre ancora metaforiche. Credo che gli uomini, soprattutto, stiano soffrendo in questo momento storico. La mia visione è contenuta in “Megalopoli”, che riguarda l’aberrazione del concetto di città. E di un essere umano che si trova sfidato dalla disumanità di quel contesto.
In “Grande città” emerge, per poi tornare in seguito, il tema della fuga. La città come destinazione di una fuga. Cosa si cerca in quella grande città?
Il brano esprime la tensione dialettica che da sempre c’è fra aspirazioni future e amore per le proprie radici. Parla di tanti giovani che cercano in un grande altrove, magari all’estero, una realizzazione professionale. A volte il gioco funziona, a volte le radici valgono più del successo milanese (il pezzo, nella fattispecie, è ambientato a Milano).
In “Minuscola”, invece, Yaguin e Fodè sono due ragazzi africani che inseguono il sogno europeo… Un sogno quasi obbligato, per chi deve lasciare la propria terra.
È una storia vera. Di migrazione per necessità. Una storia simbolica di questi due ragazzi che rischiano la vita perché vogliono portare la loro testimonianza a Bruxelles, sul tavolo dei signori del mondo. È un (doloroso) sogno utopistico.
Visto che ci hai titolato un brano, con questo sostantivo: ti ritieni un flâneur?
Sì, decisamente. Anche perché ho uno scarso senso dell’orientamento e quando giro in una nuova città mi piace perdermi alla ricerca di gesti, dettagli, scampoli di vita quotidiana. Amo catturare, anche nelle città italiane, angoli inosservati dove scorre l’esistenza. Nelle città cerco le librerie, costellazioni valoriali diverse da quelle occidentali. Non per forza migliori, diverse.
La globalizzazione ha reso anche le città di provincia luoghi assolutamente compositi. Oggi le città sono più imprevedibili di ieri?
Se la città è grande sì; forse la città piccola no. Però consideriamo che anche l’imprevedibilità, talvolta, può essere prevedibile.

In “Megalopoli” e “Deserto a New York” il vestito sonoro è importante. Hip hop vecchia scuola. Senza fronzoli, carico di effetti, suoni. Come mai questa scelta?
Perché sono sempre molto legato all’hip hop e perché sono alla continua scoperta della musica nera (soul, funk, jazz). Sempre insieme alla Moon Jazz Band, ossia i musicisti che mi accompagneranno in tour (già sold-out le prime tre date: Palermo, Torino, Roma, ndr).
Parli di “città di vetro” e “città di latta”. Vetro e latta riescono sempre a convivere in un medesimo contesto?
Dipende. Di recente ho visto Bangkok e lì vetro e latta coesistono. Magari non in modo armonioso, ma il rapporto è stretto, quasi naturale.
Ne “La caduta di Costantinopoli” affronti Istanbul.
Istanbul, complici gli ultimi avvenimenti geopolitici, si trova in una posizione più cruciale che mai. Oggi ancor di più, visto che il PKK ha da poco annunciato la fine delle ostilità con la Turchia.
Fra tanti luoghi, piazze, storie, esce poi fuori “451” che rimanda allo storico “Fahrenheit 451” di Ray Bradbury.
Non ci sono più i roghi dei libri, però siamo al cospetto di un pericoloso appiattimento della cultura. Una preoccupante dequalificazione della cultura in senso lato.
Quindi ha ragione Enrico Ruggeri quando dice: “Un ragazzino che ammazza una vecchia è una storia trap? No, è Delitto e castigo di Dostoevskji. Non è un problema di argomenti, ma di come li racconti, con quali parole. A scandalizzarmi è la povertà del lessico, la miseria espressiva di chi scrive canzoni potendo utilizzare un vocabolario di 200 parole”.
Certo che ha ragione, le giovani generazioni hanno un lessico povero, insufficiemte. Parliamo di un problema oceanico, stra-discusso, non solo italiano. Il nocciolo però non è la trap, bensì il tipo di società in cui la trap attecchisce e prolifera. Non è giusto condannare la trap in sé, ma criticarla sì. Dovremmo cercare di capire semmai perché la società contemporanea ha generato la trap.
Dal punto di vista dei testi hai ascoltato qualcosa di interessante all’ultimo Festival di Sanremo?
Ho colto scampoli di ottimo cantautorato (Brunori Sas, Lucio Corsi), ma credo che, in linea generale, stiamo vivendo un momento di metamorfosi. Da una parte c’è ancora tanto, classicissimo, amore; dall’altra l’assalto dell’industria, che su Sanremo punta pesante.
Torniamo alla città. Un tempo si fuggiva dalle campagne, oggi in campagna ci si vuole tornare.
Vero, ma attenzione, qui non c’è in ballo solo la riscoperta della natura. Non abbiamo a che fare con una nuova forma di primitivismo, bensì con una riscoperta favorita proprio dalla tecnologia. Oggi conquistare la campagna o luoghi lontani dall’industrializzazione non è una scelta così radicale perché la tecnologia, in un certo senso, ci permette di “vivere la città da remoto”. È la ricerca di luoghi più umani attraverso la tecnologia, non è il rifiuto della tecnologia.
