Murubutu (vero nome, Alessio Mariani) si avvicina all’hip hop all’inizio degli anni ’90. Insegnante di filosofia e storia in un liceo, nel 2000 inizia a riflettere sul possibile dialogo fra contenuti scolastici e il potenziale espressivo della musica rap, dando vita al “rap didattico”. Dal 2009 ha sfornato sette album, dedicati allo storytelling, in cui sonorità hip hop classiche fanno da sfondo a testi con una forte vena cantautorale, poetica e letteraria. Tra questi spicca “Infernvm” (2020), ispirato alla Commedia di Dante e realizzato in collaborazione con il rapper Claver Gold. Oggi ci racconta “Letteraturap” e i contenuti della trap.
Sei in tour sia con “Letteraturap”, un talk, che con una band…
“Con la Moon Jazz Band riarrangiamo, in chiave jazz, una parte del mio repertorio. Al momento siamo nel pieno del tour estivo, in autunno toccheremo anche i teatri. In contemporanea, con “Letteraturap”, indago la relazione fra rap e letteratura attraverso la narrativa. La scoperta dei romanzi attraverso il rap. È un talk fitto di riflessioni di tipo letterario-musicali, leggo gli estratti di alcuni romanzi ed eseguo alcuni brani dal vivo. Per mostrare come si possa fare letteratura attraverso il rap”.
Solo una persona in malafede negherebbe un valore ai testi rap, forse soprattutto quelli provenienti dal vecchio hip hop. Tuttavia la trap parrebbe aver abbassato l’asticella. È un linguaggio, certo, ma dai tratti regressivi. Come se la sua massima ambizione fosse quella di registrare, asetticamente, ciò che accade. E poi ci sono i soliti “block”, “weed”, “cash” che tornano di continuo…
“Rispondo con una provocazione: non vedo particolare pigrizia nella trap, così impegnata a inventare nuovi contenuti rispetto alla realtà di tutti i giorni. La maggior parte dei contenuti della trap sono fiction. Si finge di essere grandi spacciatori, di avere un sacco di soldi… Poi c’è anche chi vive sul serio ciò di cui rappa, ma per tante di queste voci si tratta di fiction. Nel vecchio hip hop, in effetti, c’era la volontà di interpretare la realtà, mentre la trap opera una decodifica molto interessata, proponendo la realtà a proprio modo. Senza alcuna curvatura morale. Involontariamente, però, nella trap c’è un grande grido di disagio che esce, nonostante tutti gli stereotipi, attraverso la continua ostentazione. Il disagio è lì. Si ostenta ciò che non si ha. Si millanta molto. La fascinazione che certi trapper subiscono rispetto ai personaggi che interpretano denota un evidente disagio, la volontà di avere ciò che non si ha”.
Nell’ottica dei tuoi studi e della tua competenza, dove individui qualità nella trap?
“Credo non si possa ignorare la trap, non si possa nasconderla. Non credo però che abbia un grande valore letterario, semmai un certo valore sociologico. Perché il bacino lessicale si restringe sempre di più? Perché lo slang americano fa sempre più breccia? Perché fanno così tanto presa questi valori così diseducativi (il maschilismo, le droghe, il mondo criminale)? Il valore della trap è più sociologico che artistico”.
Da genitore, però, mi verrebbe da credere che la trap abbia rubato una fetta di gioventù ai ragazzini. Li vedo passare da Peppa Pig a Lazza.
“Ci sarà stato qualcosa di mezzo fra Peppa Pig e Lazza, no? (ride, nda)”.
Pochissimo!
“Ok, ok. Non credo però che abbia rubato la gioventù. Sarebbe come dire che il rock n’ roll abbia rubato la gioventù ai giovani degli anni ’50, è stato una parte della loro gioventù. È stato un bene o un male? Dipende, è anche una questione individuale…”.
Però il 90% dei testi trap li penserei destinati a ragazzi dai 15 anni in su, non sotto i 15.
“Vero. E lo dico sempre nei miei talk: la grande differenza rappresentata dalla trap non è tanto il potenziale diseducativo dei testi, ma che questi vengano fruiti, anche tecnologicamente, da pre-adolescenti che non sono equipaggiati per saper interpretare correttamente la finzione, e che quindi finiscono facilmente influenzati da determinati contenuti”.
Da quando i social hanno contribuito ad ammazzare la critica musicale, si fa fatica – e qui la colpa è in buona parte dei media tradizionali – a distinguere. Tutti uguali quelli che oggi fanno rap o qualcosa che tira al rap? Willy Peyote vale Tony Effe? Geolier vale Rhove?
“Mah, la critica generalista da sempre non brilla per capacità di discernimento, però è impossibile ricondurre un Willy Peyote, dove c’è approfondimento, satira, analisi politica, a un Tony Effe”.
Certo. Vedo solo una grande difficoltà nel separare il grano dalla pula. Forse si fa sentire l’assenza di una rivista di settore?
“All’interno della trap esistono differenze che, in effetti, non vengono sottolineate. Ma la colpa è dei numeri, che sono diventati l’unica vera bussola in grado di orientare gli osservatori. Anche i testi di Geolier si prestano allo stereotipo, eh, e questo gli permette di raggiungere un grande pubblico. Rhove, per quanto mainstream, nel suo piccolo ha provato a fare la differenza. Quando diceva: “Non ho mai usato una pistola”. Quando non si accodava agli stereotipi gangster”.
La trap, in chiave pop, è probabilmente il primo genere storicamente “schiavo” dei numeri provenienti dallo streaming, dalle piattaforme.
“Si è moltiplicata una cosa sempre esistita, la tirannia del business. Anche prima, però, il pop non era immune dalla tendenza a glorificare i numeri, le vendite. La volontà di seguire/accontentare/assecondare il pubblico non è cosa recente”.
Sparo qualche nome e tu mi dici se vedi qualcosa di interessante nei loro testi. Il primo: Sfera Ebbasta.
“Per quanto lo conosco, non vedo molto di interessante nei suoi testi”.
Lazza.
“È bravo, sa scrivere. Che poi mi piaccia quello che scrive, questo è un altro discorso”.
Niky Savage.
“Lasciamo perdere i testi. La sua voce è più interessante”.
Shiva e il suo mondo gangsta?
“Mi evoca solo lo scimmiottamento delle solite dinamiche statunitense”.
Qualcuno su cui sarebbe utile fare più luce?
“Nayt, senza dubbio. È un talento vero. Rancore. Nell’underground Carlo Corallo, Triflusso”.
È uscito da poco, curato da Paola Zukar e Claudio Cabona, “Testi espliciti. Nuovi stili di censura”, volume che indaga, attraverso una serie di personaggi chiave, i rapporti fra il testo rap/trap (e non solo) e la censura. Oggi vedi ancora il rap ostacolato – persino censurato – dal mainstream?
“C’è stata una recente discussione, a livello ministeriale, che alla fine non ha portato ad alcuna particolare vigilanza (o censura) sui testi rap/trap. Con i testi che girano possiamo serenamente dire che la censura non c’è stata (sorride, nda). Io non sono affatto pro-censura, però è innegabile l’influenza negativa che molti di questi testi possono avere”.
Torniamo all’inizio allora. Torniamo a “Letteraturap”. Cosa c’entrano il Dolce stil novo o il naturalismo con il rap?
“C’entrano. Perché il rap è una forma di letteratura che più di altri generi riflette sulla metrica e la retorica. E poi perché il rap, attraverso la narrazione, riprende contenuti di tipo letterario che possono rimandare alla lettura di determinati romanzi”.
Pensando ai tuoi studenti: esiste davvero un ponte fra rap e letteratura?
“Sì, assolutamente sì. Molti insegnanti sono alla ricerca di nuove strategie per incuriosire i ragazzi, talvolta sempre più distanti da forme di conoscenza classiche. Il rap può essere un ottimo veicolo per raggiungere qualcos’altro”.