Pensate a un rumore di fondo, talvolta innocuo ma alle volte insistente e fastidioso. Un rumore che accompagna, probabilmente da sempre, sia gli artisti che gli addetti ai lavori, nello specifico i temutissimi, criticatissimi discografici. Di cosa si tratta? Di un equivoco furbo e insidioso recentemente tornato alla ribalta in due occasioni. Partiamo da quella più rovente: la querelle Tiziano Ferro-Mara Maionchi. Che dalle colonne di MOW Michele Monina ha giustamente definito “una storia naif”. Scrive, sempre Monina: “Sovrappeso e gay (Tiziano Ferro, nda), quindi, ma assolutamente impreparato per andare sul mercato, altroché canzoni che un postino avrebbe potuto lanciare sul mercato. Non fosse stato per Mara e Alberto (Salerno, nda), lì a metterlo a lavorare con Michele Canova […], col cazzo che sarebbe esploso a fama internazionale. Sarà mica un caso che buona parte delle canzoni che anche oggi fanno battere i cuori dei suoi fan, quasi tutti italiani, diciamolo, sono contenute in quei due primi album, lavorati con loro”. Appunto.
Episodio numero due, ma la solfa non cambia, e stiamo parlando di una storia, quella della pop music, che è letteralmente costellata di simili “equivoci”. Gianna Nannini ha dichiarato, in occasione del lancio del suo ultimo album: “Nel 1983 mi volevano sostituire con un’altra perché dicevano che non funzionavo più. Era previsto che a trent’anni non andassi più bene, ero vecchia per fare rock”. Di mezzo, ancora una volta, c’era Mara Maionchi, sua discografica. Un’affermazione forte, quella di Nannini, che ci suona inevitabilmente vittimista. Nel 1984, infatti, pubblica “Fotoromanza”, il più grande successo di Nannini e pezzo prodotto niente di meno che da Conny Plank, autentico “riferimento tecnico-sonoro” della scena Kraut tedesca. Sarà uscito come un coniglio dal cilindro, Plank, o il suo arruolamento avrà a che fare col fatto che – orrore degli orrori – Nannini era sotto contratto con Ricordi?
Insomma, seguiamo Ivano Fossati e scendiamo tutti un po’ dal pero, consci che si possono raccontare “storie naif” finché fiato e memoria (molto selettiva) ce lo consentiranno, ma anche consci del fatto che qualcuno, oltre ai nostri fedeli fan, ci ascolta. E chi ascolta queste lamentazioni non può che affidarsi al pensiero alto di quel Fossati realista e disincantato le cui esternazioni sono state – ma toh! – ben poco raccolte dai colleghi. Disse Ivano Fossati sul finire della sua lectio magistralis, in occasione della laurea honoris causa in Letterature moderne e spettacolo ricevuta l’anno scorso a Genova, rivedendo l’idea secondo cui il mondo della musica sia popolato da gretti discografici-Mefistofele che propongono indecenti patti all’artista-Faust: “Se questa meraviglia (la canzone, nda) è il risultato del patto fra gli artisti e l’industria discografica e se, come si dice, in questo patto faustiano c’è lo zampino del diavolo, allora non sono certo che l’industria sia il diavolo. Sarebbe un diavolo perdente. L’ispirazione è ancora lassù, al suo posto, fulgida, pronta a tutto, come sempre; pronta per nuove generazioni di artisti visionari, mentre l’industria, devo riconoscerlo, ha conosciuto tempi migliori. Per questo ho il sospetto che in quel vecchio patto la parte del diavolo astuto l’abbiano fatta, in realtà e di certo inconsapevolmente, gli autori e gli artisti. Proprio tutti, i grandi e i dimenticati. Ho il sospetto che in quel lontano giorno, forse, il diavolo eravamo noi”. Una provocazione? Un bagno di profondo (eccessivo?) realismo? Perché una posizione così forte ha suscitato poche reazioni, essendo invece ottima materia su cui ragionare e – una volta tanto – calare le braghe? La ragione è forse semplice. L’equivoco – Ferro-style, Nannini-style – servirà sempre soprattutto agli artisti, bravissimi ad alternare due atteggiamenti sempre ingenuamente contrapposti. Quello dell’artista puro, “obbligato” a essere anche ingranaggio dell’industria nonostante lui fabbrichi canzoni e musiche, mica confezioni famiglia di patatine al formaggio. E quello dell’artista-prodotto, ben contento di poter affermare che non c’è nulla di male ad essere anche commerciali perché il mestiere prevede che una canzone o un album si debbano “vendere”. Due atteggiamenti, dicevamo, ingenuamente conflittuali che tornano molto utili quando il vento, per l’artista, cambia direzione. Cala il successo? Ecco pronto il profilo dell’artista puro. Il successo divampa? Ecco pronto il profilo più cinico, quello dell’artista-prodotto. Manca, ancora una volta, la sintesi. La sincerità. La capacità di ammettere che il compromesso, in una certa misura, è la chiave della pop music. Sei artista puro e basta? Pubblica i tuoi bravi “Metal machine music” e “goditi” le conseguenze – qualsiasi esse siano! – di tanta ghiotta libertà. Sei artista-prodotto? Fai le tue hit, sbanca ovunque tu possa sbancare, ma magari risparmiaci supremi disclaimer secondo cui l’ennesima canzoncina forte di un ennesimo “oh oh oh” sia arte degna di una “Cavalcata delle Valchirie”. Siate più sinceri, suvvia, più smaliziati. Raccogliete gli input di Fossati o, semplicemente, ripartite dalla lucidità di Franco Battiato, che queste seghe non se le è mai fatte.