Morgan al Concertone del primo maggio, al Circo Massimo di Roma. Per perturbare, in modo dirompente. Per essere “Disruptive”, con un inedito polemico, buono per spezzare ghiaccio ed equilibri, per uscire dagli slogan-coccola o dalle esibizioni super-safe. Chiami Morgan e lo vuoi proprio così, “Disruptive” e incurante di ciò che accadrà dopo. Armato di un inedito uscito così, senza troppi strombazzamenti, come ormai compete a un artista che si fa i caz*i suoi sempre, testardamente convinto che sia il pubblico a dover fare qualche piccolo sforzo per seguirlo e non viceversa. La canzone “Disruptive” parte timida, contenuta, ma ad ogni verso si aggiunge uno strato nero. Inizia pedagogico, Morgan (“Si chiama arte, parola stanca, detta da tutti ma che a tutti manca”), ma ad ogni rima il brano si fa più “dirompente”, quasi iconoclasta. La musica? È una cosa “magnifica”, ma ora la si confonde con la classifica. Dovevamo aspettarcelo, da Morgan, un numero simile? Direi di no. Perché “Disruptive” è quanto di più limpido e poeticamente didascalico il nostro abbia pubblicato negli ultimi disordinati anni – si tratta, in fondo, di una beffarda filastrocca per malpensanti in cui una scrittura alla Faber viene calata in un contesto electro. L'ideale per avere una reazione del Concertone, un tempo abituato a messaggi più politici e negli ultimi anni sempre più simile a una versione deluxe di “Battiti live”.
Un brano al solito personale, e ci mancherebbe: potevamo avere qualche dubbio in merito? Una meditazione scanzonata ma mica tanto in cui, rima dopo rima, prende forma una tangibile amarezza che conferisce al pezzo l’anima di uno spontaneo e gravoso “j’accuse”. “Si chiama mobbing, sputtanamento, quel che succede a tutti in questo momento”, racconta Morgan, autobiografico e (parzialmente) sconfitto, raggirato. Cultura, mobbing. Sì, perché la cultura è lavoro. Poi sbugiarda, di nuovo, il mainstream: “Si chiama merito, parola ipocrita, se a prevalere qui è la mediocrità, fanno cultura solo per mettersi in posa, ma quella vera è pericolosa”. Sono i versi di un emarginato, di una figura periferica rispetto al luogo chiassoso dove batte il cuore del business, eppure perfettamente in grado di farsi ascoltare, farsi percepire. Di “arrivare”. “Loro farebbero col diavolo dei patti per riuscire a fare dei soldi con i rutti”. Il Sistema, diabolico, denunciato, da prassi. L’anno scorso Ivano Fossati, all’Università di Genova, riceveva la laurea honoris causa in Letterature moderne e spettacolo e chiudeva la sua lectio magistralis gettando una luce diversa sul rapporto artista-Sistema: “Per questo ho il sospetto che in quel vecchio patto la parte del diavolo astuto l’abbiano fatta, in realtà e di certo inconsapevolmente, gli autori e gli artisti. Proprio tutti, i grandi e i dimenticati. Ho il sospetto che in quel lontano giorno, forse, il diavolo eravamo noi”. Sarebbe bello e auspicabile un confronto fra Morgan e Fossati, per decidere chi sia, alla fine, il diavolo. Morgan, dal suo canto, fiaccato dalla monotonia di un Sistema – sempre lui – che ripropone, riafferma e rigenera soprattutto sé medesimo, la spara grossa: “Mi ha rotto il ca**o anche “Il cielo in una stanza”. Boom! E chiude in crescendo, ma col cuore trafitto: “Tanto qui chi vuoi che se ne accorga se sono Mozart o solamente Morgan, non mi diverto più ad andare contro tutti, signore e signori ecco i miei rutti”. Ora bisogna solo vedere se questi rutti – siano una decina o una dozzina – andranno a costituire il “lungamente atteso” successore di “Da A ad A” (2007). Fosse così, speriamo che Morgan beva ancora una discreta quantità della “terribile acqua Bertier” così che i rutti siano tonanti e copiosi.