È una versione musicale dei giochi senza frontiere. È l’impero del trash. È il programma tv che spiega meglio di tanti discorsi come il concetto di Europa unita non esista. Di Eurovision si dicono un sacco di cose, tutte legittime, tutte anche abbastanza divertenti da non lasciare ferite troppo serie sulle braccia di chi invece lo segue con passione. Di fatto, però, almeno da qualche anno, da che l’Italia è tornata a partecipare, e ancor più da che, si parla del 2015, quando Il Volo vinse nettamente al televoto ma venne poi sconfitto dalle votazioni delle delegazioni delle singole nazioni, toh, il televoto sovvertito, l’ho già sentita, e poi via via fino alla vittoria dei Maneskin nel 2021, Eurovision è andato occupando sempre più attenzione nel nostro immaginario, finendo quasi miracolosamente per essere preso sul serio. Così, di colpo, ci siamo quindi ritrovati a passare un anomalo sabato sera di fronte alla tv che ci portava fin dentro casa signore anziane dell’Uzbekistan che intonavano canti folkloristici locali, band tedesche che si presentavano sul palco dentro abiti imbottiti da hot dog e finte contadine polacche assai scollate lì a pigiare con veemenza dentro dei secchi di legno, come se tutto ciò fosse normale. Di più, abbiamo cominciato quasi a appassionarci alle sorti di cantanti provenienti da ogni angolo d’Europa, imparando a conoscerne nomi e carriera, certo consci che era una passione passeggera ma non per questo meno veemente. Del resto la vittoria della Kalush Orchestra con la sghemba Stefania, canzone che provava a fatica a tenere insieme folklore e rap, proprio dal palco italiano di Torino, città ospite di Eurovision 2022 in virtù della vittoria l’anno precedente dei Maneskin con Zitti e buoni, chi vince l’anno successivo ospita, questa parte del gioco, un atto di solidarietà all’Ucraina sotto i bombardamenti della Russia, prontamente esclusa dalla gara, dimostrava, se possibile, che oltre a frizzi e lazzi, fuochi d’artificio e trovate discutibili, Eurovision poteva anche essere una cosa seria, volendo politica, sicuramente non slegata dall’attualità e dalla Storia, quella con la esse maiuscola. Certo, i paesi scandinavi, che negli ultimi anni hanno in qualche modo monopolizzato con una certa costanza vittorie e quindi ospitate, guardano da sempre a Eurovision come al loro momento top, si parla di televisione, di musica e anche di cultura popolare, cosa che da noi è ancora lungi dall’avvenire, ma di fatto ormai questo sta cominciando un po’ ovunque a diventare un appuntamento apicale, Italia compresa.
Succede, quindi, quest’anno, che un po’ come era accaduto ai tempi della guerra tra Russia e l’Ucraina, i primi a vestire i panni dei villain, i secondi delle vittime designate, quando si è deciso un po’ all’unanimità di lasciar dentro i compatrioti di Zelesky, per altro indicandoli come papabili alla vittoria non certo per meriti musicali, l’Inghilterra indicata sin da subito come paese facente le parti dell’Ucraina in caso di vittoria, e così è stato, quest’anno qualcuno abbia messo in discussione la partecipazione di Israele alla competizione, guardando alla guerra mossa contro Hamas, ma di fatto contro l’intera popolazione che abita la fascia di Gaza, donne e bambini compresi, come a qualcosa di simile a quanto fatto da Putin con il Donbass. Sul perché Israele faccia parte dell’Eurovision, in precedenza, qualcuno aveva già mosso dei dubbi, del resto gareggia da sempre anche l’Australia, ma stavolta la faccenda è decisamente più spinosa, perché pur parlando di canzonette è chiaramente in ballo qualcosa di più grande. A chiedere a viva voce l’esclusione di Israele da Eurovision sono appunto i paesi scandinavi, a partire dall’Islanda, promotore di questa iniziativa. Appena infatti l’Ebu, European Broadcasting Union, ente organizzativo, ha fatto sapere che Israele anche quest’anno sarebbe stato uno dei trentasette paesi presenti, l’Islanda ha lanciato un aut aut, o loro o noi. A seguire si sono uniti i rappresentanti della Finlandia, coadiuvati da una raccolta di firme che ha visto aderire oltre duemila artisti e addetti ai lavori, compresa la popstar Robyn, nota anche in Italia. A loro dire la presenza di Israele, impegnata in una guerra contro anche civili, vera e propria operazione di pulizia etnica, poco avrebbe a che fare con una iniziativa il cui slogan è “Uniti nella musica”, di qui l’idea di boicottare Eurovision 2024 nel caso Ebu non torni sui propri passi. La presenza di Eden Golan, questo il nome dell’artista selezionata per rappresentare Israele in Svezia, il paese ospitante nel 2024, era stata messa in dubbio, perché nonostante i paesi scandinavi non siano tra i cinque membri fondatori, quelli cioè che non devono giocarsi il passaggio nelle fasi eliminatorie, l’Italia tra questi, è evidente che perdere alcuni dei Paesi che più hanno dato a Eurovision in termini di partecipanti, di seguito e anche di vittorie, sarebbe in qualche modo aprire una crepa che non è detto sia poi sanabile. Anche perché a ruota di Islanda e Finlandia, anche in Svezia e Norvegia sono partite raccolte di firme di artisti e gente comune atta a escludere Israele dal contest.
A difesa di quest’ultima è però partita dall’Inghilterra una sorta di cordata che vede uno fianco all’altro artisti britannici, in alcuni casi anche piuttosto improbabili. È infatti noto che la Gran Bretagna, che al pop ha regalato indubbiamente i nomi più importanti nei decenni per quel che riguarda l’Europa, non abbia mai voluto giocarsi carte pesanti sul fronte Eurovision, scelta che porterebbe a vittorie sicure, pensate, che so?, se scendesse in campo un Ed Sheeran, un Noel Gallagher, un Elton John. A chiedere però che Israele possa partecipare sono artisti assolutamente mainstream, come Boy George, Gene Simmons, la maschera con la lingua lunga dei Kiss, nato a Haifa in Israele, Helen Mirren, attrice piuttosto popolare anche da noi, Sharon Osbourne, moglie di Ozzy, Diane Warren, autrice di centinaia di hit. Un gruppo eterogeneo che si è ritrovato intorno alla comune idea di proteggere da questa campagna che dalle case discografiche e gli studi di registrazione è approdata sul web, per poi spostarsi nelle piazze, proprio in questi giorni in Norvegia si è manifestato pubblicamente per porre un veto o ritirare la delegazione norvegese. La Palestina, non fosse che non la si trova mai in nessun luogo e in nessun lago, non potrebbe comunque vincere Eurovision, neanche se, come succede a certi artisti italiani, mandasse un rappresentante a giocarsela a San Marino, ma di fatto un segnale a Israele, come a suo tempo è stato per la Russia potrebbe anche arrivare, vai poi a capire, se esattamente come per la Russia, la Kalush Orchestra ad aver vinto inutilmente, da questo segnale scaturirà qualcosa di costruttivo. Esattamente quarant’anni fa, epoca di visi truccati, spalline rinforzate nelle giacche e un pop che, nonostante l’ombra lunga dell’edonismo reaganiano ipotizzato da un Roberto D’Agostino ancora attivo come critico musicale, si provava ad abbattere tutta una serie di stereotipi al suono di una Roland Tr 808 e di qualche synth, proprio Boy George, alla guida dei camaleontici e coloratissimi Culture Club intonava The War Song, ipotizzando che fosse la musica a fermare le guerre. Di musica sotto i ponti, metaforicamente, ne è scorsa parecchia, ma siamo ancora qui a parlare di guerra e di musica, nella speranza che prima o poi davvero ci si possa unire nella musica, o che se anche ci si dovesse dividere, sia per invocare la pace, non certo per dichiarare la guerra.