Lo scrittore Fabio Volo merita il Premio Strega. Punto. Lo avrà. Nessuno pensi che si tratti di un nostro paradosso. Lo merita, punto. Detto in modo semplice: il narratore Fabio Volo non ha mai rotto il cazzo a nessuno, l’uomo, la persona appaiono estranei ad ogni forma di possibile supponenza letteraria, editoriale, prosopopea interessata da “anima bella”. Impossibile immaginarlo a bramare misere recensioni su Tuttolibri o magari sull’inarrivabile inserto culturale Robinson di Repubblica, neppure un invito a Fahrenheit su Radiotre è tra i suoi pensieri. Tutto questo denota talento umano, natura senza prezzo, impagabile. Soprattutto scorgendo invece che la più parte degli scrittori e delle scrittrici “laureati” appaiono assenti alla non meno umana categoria attitudinale del limite e dell’ironia; quanto all’autoironia nemmeno a parlarne, zero assoluto. Al contrario, sia detto in modo prosaico, casual, i gattini ciechi d’angora di Più Libri Più Liberi si prendono tragicamente sul serio, come fossero il sale della terra narrata, posseduti dalla postura dei “convinti” e delle “convinte” (e non si pensi che sia questo un complimento, semmai uno stigma che discende dalla più ottusa supponenza) creature, fra molto altro, cui è pressoché impossibile immaginare intenti a collaudare una vita sessuale degna del vero principio del piacere; assenti a ogni eros, turisti e turiste della letteratura, forse anche dell’esistenza stessa, Simpson mancati: se Homer è afflitto da un pennarello conficcato nel cervello, nel loro caso si tratta invece di un dildo piangente. Espressioni di un ceto medio intellettuale cosiddetto riflessivo e riflettente ditalini d’autore, in tutto medio; criceti medi, come sempre siamo costretti a rilevare.
Il democratico Fabio Volo, al contrario, è un esempio di naturalezza, il ragazzo sa sorridere molto bene, con altrettanta semplicità. Ancora, sebbene mostri un’allure persistentemente “giovanile”, non sembra possedere nulla del giovanilismo di maniera, sticker e sospiri, emoticon e imparaticci del “sensibilismo” ispirato di maniera. Posto che la letteratura, la parola scritta, non hanno il compito di salvare il mondo, sarebbe al contrario auspicabile che non scelgano di assomigliare alla spazzola destinata a emendare i peccati dal mondo. Ciò sia detto nonostante Fabio Volo abbia praticato una professione in molti casi espressamente acefala, si sia cioè trovato a fare il conduttore radiofonico davanti a un pubblico da muretto rionale. Nel suo palmarès, nel suo Vangelo professionale, esistenziale, accanto alla scrittura, spicca non meno luminoso un trascorso da panettiere, fornaio, fornaretto da immaginare in maglietta bianca, ostia umana tra la farina e lieviti, quasi una metafora della vita al mattino, all’alba, le luci ancora immobili, quando la città non è ancora sveglia, così come ha mostrato Pierre Prévert, fratello del poeta Jacques, in un documentario del 1958, “Paris mange son pain”. Fabio Volo insomma scrive per sé e soprattutto vive non eguale autosufficienza. Il suo romanzo più recente, pubblicato da Mondadori lo scorso anno, Balleremo la musica che suonano, riporto testualmente dal risvolto di copertina, racconta “la storia di un ragazzo che sentiva di non trovarsi nel posto giusto. E così è andato a cercarsene un altro. In famiglia c'erano pochi soldi: quando si andava in pizzeria si sceglieva il piatto che costava meno, non quello che piaceva davvero. Il suo destino sembrava già segnato. Non aveva un talento particolare a cui affidarsi né un grande sogno da inseguire, e ogni volta che cercava di esprimere un desiderio trovava qualcuno che gli diceva che non era per lui. Così si era convinto che certi pensieri non se li poteva permettere. Un giorno questo ragazzo scopre i libri in una maniera tutta diversa da come li aveva conosciuti a scuola. E ne rimane folgorato. Le pagine di Hermann Hesse, Gabriel García Márquez, Jack London, Joseph Conrad lo spingono ad alzare lo sguardo”.
Qual è il “posto” della letteratura? Anche in questo caso la risposta è semplice, proviamo a spiegarne il nodo con un racconto tratto dal nostro vissuto personale: molti anni fa, pieni anni Ottanta, un giovane critico decisamente sciocco, provava a restituire il senso dell’arte citando il deserto. Diceva lo stupido: immaginate un Aborigeno e poi l’Omino di Magritte, cioè il signore della city, immaginateli a sfidare la sorte e la sete. Chi dei due ce la farà a concludere indenne il viaggio, l’avventura? Certamente l’Aborigeno (da lui, s’intende, una sorta di dromedario umano vivente) non certo l’altro, non certo l’uomo in abito scuro e bombetta di Bond Street. Qualcuno gi avrebbe presto fatto notare che l’Arte (chiedo perdono per la maiuscola semplificativa) risponde proprio all’Inatteso, all’Improbabile, altrettanto all’Inattuale, ossia l’Omino di Magritte cui non avresti dato una sola possibilità di sopravvivenza cui spetta infine il traguardo vittorioso. Adesso però spiego tecnicamente in che modo avverrà il lancio della candidatura del romanzo di Fabio al Premio Strega. L’autore di questa nota è da oltre vent’anni tra gli “Amici della domenica”, cioè coloro che, oltre al diritto di voto, hanno non meno modo di proporre le “opere” (mi scuso nuovamente per l’uso di un termine insostenibile alla luce della doverosa e santissima ironia) da sottoporre al comitato della Fondazione Bellonci preposto alla selezione che determina i titoli in gara che daranno vita alla “dozzina” da scremare infine in “cinquina” destinata alla serata finale al Ninfeo di Villa Giulia a Roma. Bene, così come lo scorso anno ho – polemicamente, di più, come atto politico – scelto di autocandidare il mio romanzo Lo Stemma, pubblicato da La Nave di Teseo, un anti-gattopardo dove si prova a spiegare che la mediocrità è ritenuta un talento, creando imbarazzato e pizzuto disagio nelle stanze di via Fratelli Ruspoli, Roma, Parioli, dove ha storicamente sede il Premio, quest’anno, in nome dell’autentica meritocrazia in jeans e t-shirt sobriamente nera, proporrò, appunto, Fabio Volo.
Così in risposta a ogni altra caricatura risibilmente edificante letteraria griffata “De Clercq & De Clercq”, scrittrici in camicia alla coreana e giacca da aspirante commercialista-cosplayer dell’inarrivabile Simone Weil. Che ritorni con Fabio Volo al Premio Strega la naturalezza, ma soprattutto una risposta sinceramente democratica alla supponenza del mondo letteraria amichettista... Mi torna in mente la volta in cui, invitato a un convegno sui Beatles insieme ad altri scrittori ritenuti rispettabili, nessuno dei presenti ebbe cura di invitare Federico Moccia altrettanto tra i presenti al nostro stesso tavolo. Dovetti essere io a raggiungerlo e a dirgli, in nome delle doverose leggi dell’ospitalità, di aggiungersi a noi, così per un fatto innanzitutto di stile, di rispetto. Immaginare Fabio Volo trionfante al Ninfeo sarà davvero un momento liberatorio, e nessuno provi a insinuare che in questo modo finirebbero inficiate le maiuscole letterarie. Inutile aggiungere che questa operazione avverrà sotto il simbolo del Fronte del Suca, nel frattempo divenuto Fronte del Suca Forte. Davanti alla protervia letteraria altrui non resta che il sorriso di Fabio Volo.