Nel 1995, caspita, quasi trent’anni fa, Raf ci regalava una canzone che si intitola Il suono c’è. Un brano scritto con Cheope e contenuto nel suo album Manifesto, quello in cui il cantautore appariva a torso nudo in copertina con un bambino coccolato tra le braccia. Quando nel 2021, col nome D’Art e la canzone Stupenda, ha esordito suo figlio Samuele, avuto da con sua moglie Gabriella Labbate, ho pensato fosse quel bambino lì, nel mentre cresciuto. Nei fatti non può essere così, perché l’album è uscito ben cinque anni prima della sua nascita, nel 1996 è invece arrivata la loro primogenita Bianca. L’album ha avuto un notevole successo, trainato da una megahit come Sei la più bella del mondo, recentemente riproposta in una maniera indegna da Mecna con tale CoCo, roba da querela, e Dentro i tuoi occhi, ma è de Il suono c’è che voglio parlare. O meglio di come quella canzone, un funkettone spinto, a Raf la musica black garba da sempre parecchio, continui in questi giorni a tornarmi su, come mi capita quando, incautamente, mangio cetrioli o peperoni, sapori che apprezzo ma che fatico a digerire. Il brano, non certo filosofico, inneggia all’importanza del suono, il titolo in effetti è lì a indicarcelo, nelle parole di Cheope, autore del testo, qualcosa che arriva ben prima delle parole (vorrà forse confessare qualcosa?). A un certo punto, quando si apre al ritornello, melodico, Raf canta: “Il suono è la libertà, è il cuore della musica, scorre dentro te inarrestabile”. Poco prima, però, aveva dichiarato: “In un mondo spento, io sto cercando un punto di riferimento”. Frase che fa il paio, poi, con: “Ma ci vuole un forte sentimento per un suono che non si stanca mai, e resta indipendente da quello che si sente, perché il suono è un diritto di ogni uomo”. Viviamo avvolti da suoni. Costantemente. Al punto che, quando mai ci dovesse capitare di trovarci momentaneamente sprovvisti di essi, siamo spiazzati, spaesati, confusi. Vi sarà magari capitato di fare uno di quegli esperimenti, spesso capita in quelle situazioni che ci vendono con il nome di “Experience”, privazione del suono, della gravità, della luce, e l’effetto è assolutamente angosciante. Il silenzio, per quanto lo si ambisca, a volte, è inesistente, anche quando si è in piena campagna, lontano dal rumore della città, dove i grilli, i rami degli alberi mossi dal vento, un qualche cane in lontananza, rendono comunque il suono presente. Proprio pochi istanti fa, prima che io iniziassi a parlarvi di Il suono c’è di Raf, a sette piani da me, nella piazza che si trova sotto le porte finestre della stanza dalla quale vi scrivo, a rompere il rumore ormai familiare del traffico, i motori, le frenate, i clackson, le accelerazioni delle moto, qualche vaffanculo che prova a farsi sopra le canzoni delle autoradio, è partito un applauso. Un applauso forte, tale da superare il resto. Un applauso lungo, sentito, che è cresciuto man mano che i presenti, poi li ho anche visti, invertendo la solita sequenza vista/suono, quella dei lampi che precedono i tuoni per intendersi, si univano ai primi colpi, partiti immagino da un singolo soggetto.
Il fatto è che, da qualche giorno, verso le otto e un quarto di mattina, erano le otto e un quarto quando ho cominciato a scrivere queste parole, parole che poi ho continuato a scrivere nei minuti successivi, non vi dirò quanti perché dire che sono troppo veloce potrebbe da una parte essere scambiato con un mio voler flexare, dall’altra sminuire il peso di quel che sto facendo, perché esiste un incredibile pregiudizio verso quello che viene fatto velocemente, a prescindere dal risultato, e poi del resto voi chissà quando e come starete leggendo queste mie parole, se le leggerete altrettanto velocemente, o magari prendendovi delle pause, sempre che non ne abbia prese anche io, che so?, andando a farmi un caffè in cucina, uscendo a fare la spesa o guardandomi una serie tv, magari adesso è notte e fingo che il tutto invece sia avvenuto nei minuti successivi quell’applauso, che a dirla tutta, qui subentra davvero il patto non contrattualizzato tra scrittore e lettore, potrebbe non esserci mai stato, solo chi abita nella mia zona potrebbe testimoniarlo, non fosse che appunto detto patto tra scrittore e lettore esiste e quindi chi legge è portato a credere ciecamente in quello che chi scrive ha scritto, e ci mancherebbe pure altro, visto che me ne sto qui a scrivere davanti a un PC, i rumori del traffico e dei cantieri che arrivano da sette piani più sotto, il fatto è che, da qualche giorno, verso le otto e un quarto di mattina, erano le otto e un quarto quando ho cominciato a scrivere queste parole, un gruppo di genitori in bicicletta si ritrova al centro della piazza sottostante, in questo momento il rumore di fondo è sovrastato dall’arrivo di un’ambulanza, preannunciato da una sirena, così, per la cronaca, un aereo che in lontananza disegna una traiettoria verso l’alto, partito da Linate, starà contribuendo a suo modo all’inquinamento acustico cui siamo sottoposti, ma impercettibilmente, nel senso che non saprei distinguere il suono dei suoi motori dal resto, comunque, c’è questo gruppo di genitori in bicicletta che si ritrova nella piazza sette piani più sotto del mio appartamento, i figli sui seggiolini di dietro o, in alcuni casi, su piccole bici al loro fianco. Hanno tutti il casco, siamo a Milano, il senso civico è abbassato su tutto ma non su questo, e i tipi in questione si fanno un applauso ogni mattina, giusto prima di partire per andare a portare i figli a scuola e poi andare al lavoro. Sul fatto che poi vadano al lavoro potrei aprire una ennesima parentesi, non perché io voglia parlare di smart working, quello è lavoro tale e quale a quello che si fa in un altrove che non sia casa, ma perché ho sospetto che ci sia parecchia gente, qui a Milano, che dopo aver lasciato i figli a scuola poi non corra al lavoro, né in ufficio o fabbrica o ovunque non sia casa, né a casa. I miei figli, tutti e quattro, hanno frequentato, e due ancora frequentano, hanno da poco fatto dodici anni, il plesso scolastico che si trova in piazza Bacone, zona corso Buenos Aires. Lì ci sono due asili, frequentati appunto da tre figli su quattro, la grande ha frequentato quello vicino alla caserma dei vigili del fuoco in via Benedetto Marcello, ai tempi vivevo appunto in via Tadino, c’è la scuola primaria Bacone e girato l’angolo, lì dove adesso hanno costruito gli ormai classici tavoli da ping pong e appoggiato tavoli da pic nic, l’asflato colorato da alcuni genitori del quartiere, c’è la scuola secondaria di primo grado, cioè le medie, Santa Caterina da Siena. Poco più in là, andando verso via Piccinni, c’è anche la Piscina Bacone, non ci facciamo mancare niente. A pochi passi c’è anche un bar, Pacino si chiama, temo per far dire alla gente “andiamo al Pacino”, capite, Al Pacino, dove consegnati i figli da sempre si ritrovano alcuni genitori, intenti a prendere caffè, cappuccio e brioche. Ecco, se passate da quelle parti verso le dieci vedrete parte di quei genitori, non dico di quelle mamme perché potrei essere tacciato di patriarcato o sessismo, anche se statisticamente sono quasi tutte mamme, il fatto che io sia un papà che passa di lì e che ha accompagnato i figli a scuola per tutti gli anni in cui è stato necessario accompagnarli, non è mai stata la scuola più vicina a casa nostra, l'abbiamo scelta e continuata a scegliere proprio perché ci piace la sua impostazione, la mia stima per parte del corpo insegnante e soprattutto per colei che l’ha a lungo guidata, la dirigente Claudia Racchetti, è illimitata, il fatto che io sia un papà che parla di mamme è giusto un modo per contrastare questo mio dire che ci sono molte più mamme che papà a prendere il caffè alle dieci al Pacino, perché ci sono, questo volevo dirvi, magari per stemperare ulteriormente potrei aprire un capitolo sul fatto che le donne con figli fatichino di più a tenersi il posto di lavoro, o che in famiglia, a un certo punto, dovendo decidere se lasciare uno dei due posti di lavoro o prendere una tata, che è il modo con cui qui a Milano chiamano le baby sitter, si è optato per lasciare il posto di lavoro meno redditizio, quelle delle donne è notoriamente sottopagato rispetto a quello degli uomini, ma nei fatti credo sia più che questo è un quartiere abbastanza ricco e c’è semplicemente un numero piuttosto elevato di donne che non fa una fava dalla mattina alla sera, a parte occuparsi dei figli, spesso con l’ausilio di tate, e della casa, spesso con l’ausilio di colf, quelle che qui a Milano chiamano “sciure”.
Ora, compromessa ulteriormente la mia credibilità ai vostri occhi torno ai genitori con la bici che stanno per accompagnare i figli a scuola, una primaria, vista l’ora, e prima di farlo fanno partire un fragoroso applauso. Anzi no, torno un attimo indietro, ormai siete in mia balia, del resto, balìa, non bàlia, modo con cui nessuno qui chiama la tata. Le sciure che parlano al bar Pacino anche intorno alle dieci, alcune delle quali sono finite tempo addietro in una simpatica serie tv dal nome Una mamma imperfetta, serie tv che in realtà è stata pubblicata online e che aveva per protagonista la mia concittadina Lucia Mascino, da lì in poi esplosa in una importante carriera cinematografica, lei la mamma imperfetta, il papà al suo fianco ovviamente pacifico e calmo, per poter stare con la mamma imperfetta interpretata da Lucia Mascino, è lo stesso attore che recentemente ha fatto l’ex marito di Carolina Crescentini in Mare Fuori, segue spoiler, magistrato che le permetterà di avere in adozione Futura, la figlia di Carmine e Nina, e che poi verrà mentalmente cornificato dalla direttrice del carcere minorile di Napoli interpretato dall’attrice romana con il Comandante, nel suo karma quello di interpretare ruoli di compagni calmi e accomodanti, vedi il destino chiuso dietro il volto di un uomo con la barba. In quella serie si vedeva la vita al bar fuori da scuola, la serie si svolge a Roma, non a Milano, la mamma imperfetta in realtà impossibilitata a restare troppo al bar come altre madri, invece, le sciure che parlano al Pacino, anche intorno alle dieci, sono finite dentro un romanzo di Silvia Ballestra, Amiche mie, uscito nel 2014. Silvia Ballestra ha avuto due figli che hanno frequentato quella scuola, e per altro il più grande, alla cui nascita è dedicato l’altro romanzo Nina, ha frequentato anche la scuola materna di Benedetto Marcello con mia figlia Lucia, lì ci siamo ritrovati dopo esserci conosciuti ai tempi di Transeuropa in Ancona. Di più, Silvia Ballestra, che mi ha caldeggiato di andare alla Bacone, è uno dei motivi per cui i nostri figli frequentano quella scuola, quando si è trattato di mandare Lucia, sempre lei, a scuola, ai tempi, ci siamo fatti un giro di tutti i plessi di questa fetta di Milano, non avendo io e mia moglie uno storico a riguardo, siamo entrambi di Ancona, non potevamo che testare facendo gli open day e poi chiedendo a amici e colleghi. Lì, davanti a scuola, all’ingresso o all’uscita, ho conosciuto anche suo marito, quel Roberto Robecchi un tempo Roberto Giallo, quando si trattava di scrivere di musica su L’Unità, e poi passato a essere voce di Radio Popolare, con PiovonoPietre, autore tv, specie per Crozza, e infine autore dei libri su Montorsi, editi da Sellerio. E sempre qui ho conosciuto Gianni Biondillo, amico fraterno col quale ho anche scritto Tangenziali, cover milanese del London Orbital di Iain Sinclair, primo libro italiano squisitamente psicogeografico a sua volta coverizzato da Gianfranco Rosi con quel Sacro Gra con cui ha vinto il Leone D’Oro alla Mostra del cinema di Venezia, nel suo caso cover non dichiarata. Certo, poi ho conosciuto anche tanta altra gente, alcuni divenuti cari amici, ma qui si parlava di editoria.
Comunque, Amiche mie è ambientato lì, al Pacino, e a un certo punto compaio anche io, Michele quello della commissione mensa che ha fatto casino quando Milano Ristorazione ha passato ai bambini le mozzarelle blu. Forse ricorderete il caso, è finito anche ai Tg e dall D’Urso. Un giorno nella mensa della scuola è finita una partita di mozzarelle andata a male, a pois blu. Io, che ero della commissione di genitori che controllava la qualità del cibo e che ai tempi avevo un blog nel quale raccontavo del mio essere padre di quattro figli, ho fatto un po’ di casino, al punto da finire invitato proprio a Pomeriggio Cinque. Finire dentro un libro di Silvia mi ha fatto strano, non perché io non sia abituato a finire nei libri, sono dentro tutti i miei, praticamente, e già in passato ero dentro Gli scarti di Paolo Nori, per dire, ma Silvia nel suo La guerra degli Antò aveva parlato dei futuri Massimo Volume, Umberto, alias Umberto Palazzo, Mimì, Emidio Clementi, e Vittoria, Vittoria Burattini, e la cosa mi aveva colpito tantissimo per due motivi precisi, primo perché li conoscevo tutti, Vittoria era stata mia compagna di banco al liceo, secondo perché credo fosse una delle prime volte che leggevo in un libro italiano persone reali finire nella trama di una storia inventata, aspetto oggi ormai canonizzato, ma ai tempi quasi rivoluzionario. Nelle canzoni dei Massimo Volume, del resto, compare spesso la figura di Leo, un amico di Mimì che nei miei anni da universitario fuori sede a Bologna avrei conosciuto, il passaggio in cui lo cita in Fuoco fatuo, con quel finale angosciante “Leo è questo che siamo? Leo è questo che siamo? Leo è questo che siamo?” dopo aver indicato come in una vecchia rivista di karatè trovati a casa sua ci fosse un servizio su un uomo che uccide a mani nude un toro, servizio accompagnato da foto che però non mostrano “la foto del contatto tra le corna e la mano”, confesso, mi porta alle lacrime ogni volta che la sento, e capita abbastanza spesso, mentre Umberto lo avrei conosciuto anni dopo a Vasto, insomma, a giocare con fantasia e verità si finisce per avere per le mani storie interessanti, credo, io sono quello che rompe le palle a Milano Ristorazione dentro un libro che parla di donne e di amicizia e di famiglia ambientato al bar Pacino, Al Pacino. Tornando all’applauso che ha, per qualche istante, sovrastato il rumore del traffico all’ora di punta, la via che affianca la piazza in questione è tra le più trafficate di Milano, si legge in quegli articoli che ci tengono sempre a fare classifiche, e dei cantieri tutto intorno, applauso scaturito da un gruppo di genitori in bici coi loro pargoli, va detto che la faccenda dei ciclisti che si autoconvincono di star facendo qualcosa di eroico, quindi degno di essere sottolineato con applausi e un certo clamore va abbastanza spesso di scena da queste parti. Un tempo, ma forse succede anche ora, solo che essendo io al settimo piano me ne accorgo meno, ogni giovedì notte la via in questione, quella trafficata, veniva in qualche modo presa in ostaggio da un gruppo piuttosto numeroso e rumoroso di ciclisti, ciclisti e non solo, c’erano anche altri buffi mezzi di circolazione, vagamente da romanzo steampunk, cariole e affini, gente nota come “quelli della critical mass”. Succedeva che si cominciava a sentire un baccano, trombette, tamburelli, trik e trak e voci da altoparlanti, ai tempi abitavo a un secondo piano affacciato su una vietta a poche centinaia di metri da dove vivo ora, appena a lato della strada principale, e dopo un po’ cominciavi a vedere questa fiumana di gente, gente festante, va detto, lì a bloccare il traffico per qualche minuto, riportando il mondo indietro di qualche decennio. Non che la cosa sia da biasimare, intendiamoci, lo dico perché io ero a casa, mai a bordo di una delle auto bloccate dal loro passaggio, e comunque star fermi qualche minuto per far passare una fiumana di persone in bici, intente a riappropriarsi nottetempo della città non mi è mai parso nulla per cui innervosirsi, anzi, l’ho sempre trovato piuttosto carino, e non si legga questo aggettivo come di chi non ha il coraggio di dire che una cosa non è brutta, e siccome non può fingere fino al punto di dire bella allora dice carina. No, è proprio una cosa carina, piacevole, simpatica. Certo, non vi ho mai preso parte, non vado in bici, e non intendo iniziare adesso, ma trovo che farlo di notte, in quel modo, sia sensato. Meno di giorno, quando si rischia la vita, almeno a Milano, e si mette a rischio anche gli altri, discorso complicato già affrontato altrove. I tizi che però stanno applaudendo in piazza ora, in realtà sono passate circa due ore, per un po’ ho scritto, poi sono intervenuto durante lo spazio dedicato ai libri a Rtl 102,5, per parlare del mio ultimo lavoro e poi sono tornato a scrivere, riprendendo il filo del discorso, ora sono el dieci e diciassette del mattino, i tipi saranno andati al lavoro, tornati a casa a fare smart working, o magari staranno a un altro bar che non sia il Pacino, siamo lontani da lì, a perder tempo, nella finzione però siamo ancora alle otto e un quarto, due ore fa, e i tizi che stanno applaudendo in piazza ora non sono tipi da critical mass, o se lo sono sono vestiti in maniera più sobria, lo dico nonostante le foglie degli alberi della piazza non siano ancora cadute e la vista mi sia in parte occlusa, anche se il temporale di luglio, quello che ha devastato Milano, ne ha fatti cadere alcuni, quindi ora vedere il centro della piazza mi è comunque possibile. Sono genitori che portano a scuola i figli, o seduti sui seggiolini delle loro bici o in sella di piccole bici al loro fianco, tutti con caschi. Si battono le mani per farsi i complimenti, immagino, o per incoraggiarsi, visto che buttarsi nel traffico all’ora di punta è impresa eroica davvero. E nel farlo fanno partire un applauso che diventa, per qualche istante, il suono di Milano, o di questa porzione di Milano che entra in casa mia dalla porta finestra lasciata aperta in questo strano autunno ancora così caldo. Milano è il suo suono, lo direbbe anche Raf, se qualcuno glielo chiedesse. Cheope, che per altro abita non troppo lontano da casa mia, qui dove abito io ci ha vissuto anche suo padre Mogol, che non a caso ha descritto la zona alla perfezione in Pensieri e parole, il cinema di periferia, il campo di grano, che ora non c’è più come la periferia stessa, ora divenuta zona semicentrale, la vecchia ferrovia. Mi ripeto, toccherà, prima o poi, pensare a una psicogeografia che si concentri solo sui suoni. Non solo sulla musica, ma proprio sui suoni. Psicogeografia. Nel mentre è tornata mia figlia Lucia, che ha dormito fuori e che ieri è andata al Teatro Ciro Menotti a vedere ExtraliShow, lo spettacolo diretto da Elisabetta Sgarbi che vede gli Extraliscio di Mirko Mariani a confrontarsi sul palco con Davide Toffolo dei Tre Allegri Ragazzi Morti e, per le prime due serate milanesi, anche di Antonio Rezza. Lucia ne è rimasta entusiasta, e conoscendo gli artisti in questione non fatico a crederle, del resto io andrò a vederlo domani, con mia moglie. Torno al Pc, sono le dieci e tre quarti, in mezzo anche un caffè e un pacchetto di Pavesini, per tenere a bada la fame fino a ora di pranzo, hanno solo 29 calorie. Il tempo di gettare uno sguardo sui social, vedo che Mirko Mariani, il leader degli Extraliscio ha condiviso le foto della serata a teatro di ieri. C’è lui, la barba lunga, i vestiti estrosi, ci sono Rezza e Toffolo, il viso coperto dalla classica maschera. E poi c’è lui, lì, a entrare di nuovo nel mio racconto, Leo, quello di Fuoco fatuo e altre canzoni dei Massimo Volume. Fa parte dello spettacolo, mi dice Lucia, perplessa per la faccia stranita che devo aver fatto. Il suono di Milano, da adesso credo per tutto il giorno sarà proprio quello dei Massimo Volume. Leo è questo che siamo? Leo è questo che siamo? Leo è questo che siamo?