Ho perso mi sono perso ma sto volando alto è il nome dell’esposizione di Michael Stipe che fa curiosamente da controaltare al suo quarto libro di fotografia, Anche gli uccelli si fermarono, presentato contestualmente a Milano in questi giorni. Dallo scioglimento ufficiale nel 2011 dei Rem, Micheal Stipe, “The face”, (come lo ha soprannominato Mike Mills) ha subito il disturbante ma legittimo pressing di un’estesissima fanbase sempre famelica di sequel, secondi tempi e fasi Rem oltre che di un giornalismo che non si rassegna alla fine senza traumi, sangue, feriti e morti precoci, di una band che decide beatamente di chiudersi dentro la quarta di copertina dell’annale che ha scritto. Storia chiusa senza revisionismi e versioni aggiornate di una band che, per giunta, dichiara dickensianamente di volersi bene. La storia dei Rem, per un ironico gioco delle sorti, comincia proprio al college, quando Stipe era uno studente d’Arte a Athens, Georgia. Ha poi trasporto quel bagaglio di conoscenze in allusioni nel suo atteggiamento musicale, spesso più vicino proprio arte visiva che alla musica ma, come si dice, quel che avviene conviene. È stato un bene per tutti che sia stata la musica a accoglierlo.
L’esposizione alla Fondazione ICA, probabilmente, risente di quello che lo storico Alessandro Barbero definisce “il fattore rinascimento” ovvero quel principio rinascimentale secondo cui il genio - categoria para-cognitiva di cui la nostra epoca abusa pur essendone quasi del tutto priva - attinga da un magma totipotente dell’individuo che potrà differenziarsi in una molteplicità di attività e pratiche. Ma soprattutto dall’idea ingenua e naif che l’arte sia un “modo per esprimere se stessi” come direbbero “i figli dell’amore eterno”. E da una suggestione autenticamente hippie prende le mosse I have lost and I’ve been lost but for now I’m flying high: da questo distillato di esistenzialismo post- It’s the End of the World as We Know It che scandisce il percorso analitico che Stipe ha compiuto sondando la superfice della propria fragilità al fine di rinvenirne un’inconsueta vita creativa. Su una poesia di Max Ehrmann, dal titolo Desiderata (1927), si sviluppa la disamina della vulnerabilità. Una poesia che è un’esortazione a compiacersi quasi animisticamente di se stessi e dell’Universo.
La fragilità è un super potere o come diceva Vasco Brondi: “È un super potere essere vulnerabili”. Un motto e un mantra, che fanno da salvagente a Micheal Stipe che da circa dieci anni si dedica a questo, a dare densità a una dissoluzione, servendosi di un’arte tangibile, concreta fatta di scatti, ritratti, istallazioni, che fungono da lettino freudiano e da carrellata mnestica, uno scrolldown plastico della propria vita, quando questa diventa eterea e intangibile e non ha più i profili materici in cui hai pensato di riconoscerti. Qualche anno fa Michael Stipe aveva annunciato al New York Times di aver cominciato a a lavorare a un solo album. Così, è cominciato un inestinguibile rullo di tamburi a fare da sfondo a assillo rumoristico a Stipe che, nel frattempo per sua stessa ammissione, non farebbe mai uscire un album se anche una sola traccia non lo convincesse, se solo lui non fosse d'accordo con se stesso. E a ogni annuncio di prossima uscita, la Vita si mette in mezzo. Ricordando quella volta in cui Dino Risi, per irretire il narcisismo cinematografico di Nanni Moretti, disse “spostati e facci vedere il film”, credo che Stipe sia dello stesso avviso. L'artista sta solo tentando di spostarsi per farci ascoltare l’album.