Al concerto di Marco Castello di qualche mese fa (in solo, stringato ma assai intimo, un’oretta di live acustico con battuta riempitiva ma piacevole) ci aveva colpito la diversità eppure la assimilabilità del pubblico. Era un set in un club (qualunque cosa siano oggi i club) che conteneva cento persone andando larghi, e infatti fu necessario dilatarlo in una triade di set sold out, con alto rischio di fretta da compitino ma abilmente schivato. Castello lo accogliemmo, forse un po’ ubriacati dalla vibe, come un cantautore capace di riunire le schegge impazzite del pop fatto molto bene in una sorta di calderone generazionale: lo accogliemmo con entusiasmo, e fu lecito. Lo è lecito anche adesso che abbiamo soddisfatto l’unica voglia che ci era rimasta dopo quel set striminzito con la chitarra acustica: sentirlo con tanto di banda a seguito. E l’abbiamo scovato al Locus festival in apertura di quelli che lui stessi sul palco ha definito maestri e mostri sacri, i Fearless Flyers (non ha torto, fidatevi).
Il fatto è che Pezzi della sera (2023), l’album che ha rivelato Marco Castello a un pubblico più ampio (ma non ancora grande, ma non ancora mainstream, se il termine è concesso), ci aveva sorpreso perché non c’era niente di nuovo ma quanta maestria di scrittura e di produzione e di arrangiamenti, ma quanta personalità in canzoni che, e in questo caso è un vanto, per lo più non superano i tre minuti. Castello si è creato un suono in testa e l’ha saputo tradurre in musica: ha fatto l’unica cosa che davvero basta a dirsi musicisti, poco importa che questo suono in sé non sia niente di nuovo (qualunque cosa significhi nuovo oggi). E il fatto è che tradurlo dal vivo, tradurre sul palco, luogo di dispersione e dissipazione, un suono che come principale caratteristica ha l’asciuttezza, la precisione sobria e misurata, non è in fondo una cosa facile.
E non solo perché dal vivo succede di tutto (può capitare che ti spengano il microfono quattro volte: è successo), ma perché la banda che ti porti appresso deve essere forse più ineccepibile di te, che pure sei l’attrazione principale.
Questa è una bella rogna: stiamo dicendo che non basta l’attitudine da amiconi, la sicilianità, l’affabilità e che in ultima istanza non basta neanche scrivere ottime canzoni per rendere bene dal vivo, non basta se l’impasto d’insieme, che è composto dai musicisti, non si cuoce come dovrebbe. È capitato più volte durante il concerto di provare sensazioni di saturazione: troppi fiati, troppa spinta, troppa distorsione, poche dinamiche, ed era così viva quell’urgenza di riempire ogni spazio, di fottersi ogni porzione di suono in una angoscia da horror vacui che è diventata evidente, per contrasto, quando i maestri Fearless Flyers sono saliti sul palco. Provammo una simile sensazione non molto tempo fa quando, dopo il chitarrista fenomeno Matteo Mancuso, sempre al Locus festival, salì sul palco Marcus Miller a farci distendere, a liberarci dalla schizofrenia di note.
Ciò non significa che il concerto di Marco Castello con banda non sia un concerto riuscito: il riff di Dracme, lo straniamento quasi corale di Melo, il groove disteso di pezzi come Pipì e Beddu rimangono pilastri che sorreggono ogni svista, ma la transizione da studio a live di questi brani in potenza riuscitissimi ci ha lasciato un retrogusto di coito interrotto. Quale che sia la ragione reale e profonda di questo senso di inesattezza, di discrasia, noi non ce lo siamo chiesti fino in fondo: ci siamo limitati a registrare e ad accusare convenientemente la band di volersi mangiare ogni fetta della torta sonora. È possibile pure, e non da escludere, che i musicisti non abbiano avuto la migliore serata a causa di banali problemi tecnici (uno su tutti: i volumi sballatissimi, ma i fonici?), così come è possibile che Marco Castello non abbia ancora trovato il modo di tradurre oltre, di fare lo step successivo: dalla testa al disco è andata, ora c’è da fare dal disco al palco (o da farlo fare ai suoi musicisti).

*Un’ultima nota sul pubblico. I fan di Marco Castello rispondono a codici ben precisi: a dominare è l’estetica Bar Mediterraneo, molto vintage ma celebratissima sui social, in connubio coi testi più fintamente disimpegnati del pop contemporaneo italiano; questo ultimo dato avvicina il pubblico al grande fritto misto che è l’estetica alternativa. Se vi interessa approfondire l’aspetto generazionale e demografico di chi va a sentire questi concerti l’abbiamo indagato in un altro pezzo (perché tra loro, nascosti abilmente in qualche antro del fritto misto, ovviamente ci siamo pure noi). Si tratta in ogni caso di un bel pubblico rizomatico: non predilige un brano per un altro, non aspetta la hit che emerga come centro e obiettivo del set ma anzi conosce ogni parola, urla, poga pure quando non serve, e magari non produce numeri da mainstream sanremese ma insomma, pure per uno come Castello, che però prima di tutto è un grande musicista, saranno pure soddisfazioni.