“Cerca di capirmi. Se fossimo qui per Glocki o Kid Yugi sarei più entusiasta. Anche un paio di canzoni di Jovanotti, di recente, mi sono piaciute, ma di Ligabue conosco solo “Certe notti”. Non inizia benissimo la spedizione per Campovolo, Reggio Emilia, insieme a mia figlia – quasi quattordici anni e dimostrarli tutti, soprattutto quando si parla di musica. Ma potrebbe andare peggio. Potrebbe sapere che qualche chilometro più in là, a Bologna, c’è il concerto di Ozuna – siamo in area reggaeton. Solchiamo la campagna fra Parma e Reggio, che non è più identica a quella narrata dal Liga degli esordi. Notiamo i casolari, i prati coltivati, il bar che potrebbe tranquillamente essere di un Mario. Le ombre lunghe delle chiese, però, talvolta si posano sulle insegne di una finanziaria che ti spappola, mica sulla sede di un partito rosso o su un centro ricreativo per la terza età. “E poi la mia amica con cui mi sto scrivendo adesso mi dice anche che lei, invece, è a vedere Ozuna!”. Tiè, servito. E così, nelle terre di Pier Vittorio Tondelli, Gianni Celati, Giovannino Guareschi, Guido Conti e compagnia mi ritrovo a “rimbalzare il reggaeton” nel nome di Ligabue. I tempi sono cambiati, non c’è che dire. Sono passati 30 anni da “Certe notti” e “Buon compleanno Elvis”, tanto che la serata di Campovolo alla Rcf Arena è intitolata: La notte di certe notti. Tre ore di concerto. Ricordi, fantasie di saloon ora chiusi ma forse mai esistiti. Eppure gran parte del mondo del Liga e del suo popolo è tutt’altro che astratto. Vive, suda, scopa, si ubriaca, impreca, si dimena, tribola. È un mondo poco smart, che Ligabue – cosciente di quanto la globalizzazione abbia domato la cresta rustica della Bassa – col tempo ha ridisegnato. Certe notti, quindi, si torna al compleanno di Elvis, al Campovolo di 20 anni prima organizzato da Claudio Maioli. E a una celebrazione della vita che sarà in grado di ingrandire gli occhi anche di chi, quella sera, forse avrebbe preferito essere da un’altra parte.

Eravamo in centomila a vedere il Liga, “uno che canta con gli occhi”
Centomila persone – poco meno o poco più – davanti a un palco cangiante e due megaschermi che hanno permesso alla storia del Liga di sfilare sfavillante e nostalgica. C’è tempo per ricordare tutto ciò che si desidera. Little Taver, anche lui più vecchio ma non meno simpatico, fra un pezzo e l’altro si agita come un pazzo. Basettoni e giacca oro, è un candelotto di dinamite acceso, per la prima volta, sul finire del Novecento, quando una discreta percentuale dei presenti era appena nata o non era nata affatto. Tre ore di concerto circa, dicevamo, per un Liga che concepisce il nuovo Campovolo come una giostra su cui salgono tutti i protagonisti di una vita in musica. I Clan Destino di Max Cottafavi (chitarra) così come La Banda di Federico Poggipollini (l’atro grande chitarrista del Liga) – ma sono quattro, per la precisione, le formazioni che si avvicendano su un palco “vivo” quanto chi lo calca (da segnalare, fra i tanti musicisti coinvolti, anche Lenny, figlio del Liga, alla batteria). Vanno in onda gli hits, i classici. Il punto è l’energia, la passione, l’emozione. Sono le uniche declinazioni possibili per un evento del genere. Altrimenti come faresti a tenerti vicini sia quelli “che c’erano” sia quelli “che non c’erano affatto”? Ce la fai se parti con un trittico come “I ragazzi sono in giro”, “Questa è la mia vita” e “I duri hanno due cuori”, impostando l’intera festa-concerto come una gigantesca serata fra amici in cui gli album dei ricordi non sono registri stanchi e ingialliti, bensì un corpus dinamico e scalpitante. Le cornici mangiucchiate diventano anch’esse tracce di una realtà vibrante. Al centro foto e volti di ieri per celebrare, oggi, la vita. Per dire, arrivata a “Lettera a G.”, sempre toccante, mia figlia ha già dimenticato Ozuna. Perché Luciano Ligabue è persuasivo. Quando te la racconta, lo ascolti. “Cantava anche con gli occhi”, mi dice la mia ragazzina parzialmente convertita. “Non mente Ligabue”. Sì, è vero, non mente. Una questione, questa, che va oltre gli album storici e quelli riusciti meno bene.

I sogni traditi e tutto il resto
"Io ho avuto un sogno che sembrava molto vicino a una realtà e che si è formato nella mia adolescenza. Negli anni Settanta pensavo che il mondo si potesse cambiare, rendendolo più praticabile, giusto, equo, vivibile. In quel periodo operai, studenti e intellettuali andavano nella stessa direzione. Oggi quello che vedo è l’esatto opposto di quel sogno. Cosa si può fare? Ci sarebbe da smontare tutto, ma di sicuro non può farlo un cantante. Quello che possiamo fare è ricordare che non si può ignorare il riscaldamento globale, come non possiamo continuare a pensare in termini di riarmo e guerra, come stiamo vedendo in questo periodo. Credo che una speranza per il futuro passi per forza dal genere femminile". Il Liga-pensiero, anche qui, come il manuale del cantautorato rock insegna e impone, è il punto in cui esperienza personale e “mondo là fuori” si incontrano. A volte c’è sintonia, a volte la sintonia è scarsissima e non conta quanto smanopoli: alla fine becchi sempre Radio Maria. Tra un blocco di brani e un altro, testimonianze e speranze. Ci si incanta dinnanzi ai prodigi, proiettati sui due megaschermi, dell'intelligenza artificiale. Si chiacchiera dei sogni di cui sopra, di quel Dio a cui Ligabue chiedeva “un momento” ormai trent’anni fa. Ci sono ricordi che fanno male, altri che suscitano solo sorrisi dolci. Il viaggio verso “Certe notti”, il climax finale, con tanto di fuochi d’artificio, è un viaggio che tocca tutte le tappe del mondo-Liga. “Non è tempo per noi”, “Piccola stella senza cielo” e “Balliamo sul mondo” suonano gloriose e amare, brevi missive di rock popolare per un nuovo Umanesimo. E si procede, di racconto in racconto, consci che il viaggio è il nocciolo, sia chiaro, ma anche il traguardo finale sarà mica male.

“Certe notti” riescono meglio di altre
Sono sicuro: mia figlia non me lo vuole confessare per non darmi la (meritata) soddisfazione (gli adolescenti ce l’hanno sempre in canna la pallottola del non volerti dare troppe soddisfazioni), ma qualche brano del Liga presto avrà l’onore di inserirsi in una sua playlist Spotify. Accanto a Villabanks, Danien & Theo, Luchè e, ehm, tale Peppe Soks. Quel brano potrebbe essere “Certe notti”. Quel brano leggermente felliniano in cui nessuna parola e nessun sentimento sono fuori posto. Una canzone nata nel giorno giusto. Uscì il 25 agosto 1995. Vi rendete conto? “Certe notti” uscì a fine estate, poco prima che si torni a scuola o quando il lavoro è ricominciato da poco. Poteva uscire in un periodo più azzeccato quel pezzo di quel Liga, allora 35enne, alla ricerca del proprio tempo perduto? “Certe notti” uscì al tramontare di un’estate totalmente euro-dance. Era l’anno di Scatman John, La Bouche e Ti.Pi.Cal. feat. Josh. E lui, incurante dei fasci di luce provenienti dal Genux, snocciolò con versi come: “Quelle notti fra cosce e zanzare/E nebbia e locali a cui dai del tu/Certe notti c'hai qualche ferita/Che qualche tua amica disinfetterà/Certe notti coi bar che son chiusi/E al primo autogrill c'è chi festeggerà”. Tardo novecento in una Bassa che si fa piccolo mondo italiano. Universale, per quattro minuti e venti – la durata del pezzo – o per trent’anni. Mia figlia è emozionata, non me lo aspettavo. Sentiamo “Certe notti” da una certa distanza perché uscire in auto da Campovolo a concerto terminato potrebbe essere esperienza da tramandare ai nipoti, tipo sbarco in Normandia, se non scatti qualche minuto prima. Il boato che sfuma, le luci più lontane, un grillo che si fa sentire nel mezzo di una campagna timidamente accennata. Campovolo dietro di noi, ma dentro di noi. Ligabue è criticabile come qualsiasi essere umano che abbia mai mostrato la propria arte in pubblico. Ma la sua visione ampia, le sue braccia larghe verso il pubblico mentre guarda dritte negli occhi centomila persone circa, è magia calda in un mondo, a tratti, davvero troppo freddo.
