Come ce l’ha fatta vedere lui la disperazione, in pochi. Come ci ha fatto sentire la vita scorrere in mezzo al dolore, fermarsi a un “confine”, ancora meno. Persone bloccate davanti a un dirupo, con un groviglio da sciogliere, di fronte a una salita da percorrere, trovarsi a fronteggiare una crisi. O più crisi. E finire per incontrare qualcosa di 'altro', o forse raggiungere un posto chiamato 'Altrove'. Come si fa? Dove si va? Queste le immagini che sanno anticiparci il suo nome: Alejandro González Iñárritu. Ed era il 2001 quando uscì nelle sale italiane Amores Perros, primo capitolo di quella che fu battezzata come una Trilogia della Morte, grazie all'arrivo, anni dopo, di 21 grammi e Babel. Era giovane Iñárritu, regista messicano, che con Birdman o l’imprevedibile virtù dell’ignoranza e Bardo, la cronaca falsa di alcune verità sarebbe diventato insieme a Cuarón e del Toro, tra folklore e fantastico, divulgatore di un sentimento. Di una sorta di senso di appartenenza, forse assomiglia a quella cosa di cui parlava Pessoa, la famosa e stra-citata saudade, unita ad altro. All'immaginazione, all'Altrove, appunto. La nostalgia per chi si era, per dove si era e la necessità in ogni suo film, lo abbiamo detto prima, di ritrarre la gente al confine, inteso anche come limite. Personaggi in bilico, che devono fuggire o trovare il coraggio di 'fare', sopravvivere, rinascere. O quantomeno provarci. E vedere tutto fondersi e non capire più cosa è reale e cosa no. Ecco, Amores Perros è stato l’inizio di un cammino che si sarebbe fatto più astratto. Tre capitoli in uno stesso film, tre storie diverse che avevano in comune un incidente. Tra cani, macchine, esseri umani.
Tutto questo per dire che a Milano, in Fondazione Prada, c’è una mostra che si chiama “Sueño Perro: Instalación Celuloide de Alejandro G. Iñárritu”. Ed è la terza volta che la Fondazione e il regista Premio Oscar collaborano insieme, dopo la rassegna cinematografica “Flesh, Mind and Spirit” a Seul (2009) e Milano (2016), e l’installazione sperimentale di realtà virtuale “CARNE y ARENA” (2017). Sueño Perro raccoglie parti, tagli, un film del 'possibile', un altro film nel film. “Durante la fase di editing di Amores Perros oltre trecento chilometri di pellicola sono stati tagliati e lasciati sul pavimento della sala di montaggio. Queste immagini cariche di intensità che corrispondono a sedici milioni di fotogrammi sono rimaste sepolte negli archivi cinematografici dell’UNAM per venticinque anni. In occasione dell’anniversario del film ho sentito il dovere di riscoprire e riesplorare questi frammenti abbandonati, con la loro grana e i fantasmi di celluloide che contengono. Spogliata di ogni narrazione, questa installazione non è un omaggio, ma una resurrezione: un invito a percepire ciò che non è mai stato. È come incontrare un vecchio amico che non abbiamo mai visto prima”, leggiamo nel comunicato stampa diffuso da Fondazione Prada. Sono le parole di Iñárritu. In mostra girati inediti di Amores Perros che compongono una fase altra di un'idea che avevamo creduto di aver visto finita, anche se va detto che ogni film sarebbe potuto essere tanti altri film, e allora quello che vediamo in sala è sempre e solo il frutto di una scelta. Installazioni, quelle che orbitano nel Podium, con al centro una nostalgia materica, proiettori analogici di 35mm, la grana, il rumore, il calore sala per sala, pezzo dopo pezzo. Non resta difficile immaginare un giovane e già talentuosissimo Iñárritu dietro la macchina da presa, sul set di Amores Perros. Era l'inizio.
Al primo piano: le fotografie. Immagini di un universo che era già involucrato dentro Amores Perros. “Girato in un ‘momento di transizione’, Amores Perros non rifletteva la fine di un’era, ma l’inizio di un tracollo. Venticinque anni dopo la sua rilevanza sociale è disturbante: ciò che accadeva allora, accade ancora oggi. La sua esplosione è ancora in corso”, afferma l'ideatore della mostra Juan Villoro, giornalista e fotografo messicano. Quello che avevamo visto succedere nel film e nel Podium, ora lo studiamo negli scatti. Sarebbe la vita e il Messico dentro e soprattutto fuori Amores Perros. Questa parte dell’esposizione s'intitola “Mexico 2000: The Moment That Explored”. Ci sono le cuffie, si sente la magnetica voce narrante che spiega ogni capitolo, ogni parete. Le fotografie sono di diversi autori, tra i quali: Paolo Gasparini, Graciela Iturbide, Enrique Metinides e Pedro Meyer. Selezionate da Pablo Ortiz Monasterio. La mostra ci conduce al significato del sacro, delle croci e dei santi (tra gli oggetti 'venerati' anche la televisione sempre accesa nella case) e ai paesaggi, alle città invisibili. Ecco, viene citato Italo Calvino sì, ma mai per caso. Il tanto amato Calvino spesso scomodato inutilmente per spiegare l'arte, solo perché le sue parole sanno rendere più visibile ciò che visibile non è. Critica che, chiaramente, non riguarda affatto Mexico 2000. Si cita dal libro la città di Tecla, si discute tra le pagine di fatica, dello sforzo degli operai nel costruirla. Il senso del progetto loro lo troveranno solo la notte, guardando 'la mappa della città che brilla'.
Che senso ha il vostro costruire? – domanda. – Qual è il fine d’una città in costruzione se non una città? Dov’è il piano che seguite, il progetto? – Te lo mostreremo appena termina la giornata; ora non possiamo interrompere, – rispondono.
Il lavoro cessa al tramonto. Scende la notte sul cantiere. È una notte stellata. – Ecco il progetto, – dicono.
(I. Calvino, Le città invisibili)
México 2000 è una illustrazione di volti e di momenti dell'epoca in cui ogni parola scritta su parete, ogni riferimento, immagine, simbolo o suono proveniente dalla traccia audio riesce a emozionare e a rendere tangibile ciò che deve essere stato Amores Perros. Come se alla fine dopo questo viaggio in Fondazione Prada, fosse il film stesso una città invisibile diventata manifesta.